Oh, improvvisamente senti il bisogno di vergare questa cosa su carta: hai sempre pensato che parlare di memedesima fosse una cosa brutta, inutile, di cui quasi scandalizzarsi. Dire io in pubblico, che indecenza. E scriverlo, poi! Una schifezza.
E tutti a dire ma no, ma perché, il mondo intero pensa in Io, serve a pensare, a capire, a spiegare, ohibo’, mo’ non stare a fare la sostenuta. Ma non lo facevi apposta, è solo che avevi questa vita piena di voci. Poi un giorno – non sai nemmeno com’è stato – ti sei detta mo’ provo, e vediamo com’è. Ora, non ce la fai più a tenertelo: è stato un disastro. Non sai che t’è preso, davvero, non sai come hai fatto a farlo uscire dalle pareti del cranio. Doveva mancarti qualche rotella – che poi è tornata forse a posto, perché poi quel giorno di giugno ti sei sentita l’essere umano più stupido della terra. Ma che ho fatto, ti chiedevi, ed era già fatto, appunto, già tutto fatto che non ci potevi più fare niente, e allora ti sei sentita come il bambino Oskar, o come Billy Pilgrim, e hai desiderato che tutto quello che avevi pensato in Io rientrasse nella punta della biro, tutto tutto indietro, facendo scorrere il film di quei mesi passati a dire Io alla rovescia, dall’ultima parola fino alla prima. Perché il guaio con le parole è sempre quello, che non sei più lo stesso dopo che le hai dette o scritte o ascoltate, tutto cambia, non è più la stessa cosa di prima. Nel caso specifico, che guaio è stato: si sono spalancate, e hai scoperto la vastità del microscopico mondodidentro, la parola Io era solo il minuscolo passaggio che portava… dove? Boh, forse a quel tout se tient che ti sembra tenere misteriosamente in piedi il microscopico edificio della tua esistenza da ginestra. Che alla fine, poi, era solo quello che il tuo io voleva raccontare: non i fatti, non le cose in sé, ma il modo, la forza che a un certo punto le metteva tutte insieme a formare qualcosa d’altro, di nuovo, di vivo e di… solido. Che sta in piedi. E invece no. Alla fine, che pasticcio. L’informe matassa del tuo tout se tient ha un senso solo per te, solo tu vedi da dove parte e dove arriva, e come si trasforma. E soprattutto, nella parola Io non ci sta. Non ci entra. Io non è solo io. Io è una rete, di voci e di gesti, di cui solo incidentalmente io fa parte. Io sul foglio è un collo di bottiglia di te che sei intera, in intero che non ha gli strumenti per riassumersi. Ma tu hai spinto lo stesso, più che hai potuto, per far passare quell’intero grosso come te per un buco largo quanto la punta di una biro ed ecco, ecco il pasticcio. Intanto, dietro quella porta così piccola ci hai trovato la mappa del mondo delle congiunzioni, dei legami, delle forze tra loro opposte che, opponendosi a loro volta alla gravità, fanno sì che tout se tient, sicché alla fine parlare in Io è stato tentare di muovere i primi passi nell’immenso territorio delle congiunzioni. Io e.
Che casino. Non ci hai capito più niente. Per mesi hai camminato a tentoni, lasciandoti guidare da una voce che da chissà dove ti portava chissà dove, e sì che non sapevi nemmeno bene di chi fosse, quella voce. Ma ormai c’eri, e allora.
Poi un giorno, una notte, è spuntata la Luna. Alla sua luce ti sei vista i piedi, e hai visto la strada. E hai gridato. Perché in Io avevi sbagliato tutto, credendo alla voce, che poi era la tua, che diceva che andava tutto bene mentre in cuor tuo sapevi anche se speravi, speravi, speravi. Tutto sbagliato. Ancora e ancora. Guardando l’intero, quel che era passato per il collo di bottiglia della punta della penna era niente più che un ghirigoro informe, un lungo serpentello di dentifricio lasciato lì a seccare. Avevi creduto che. Avevi pensato. Eh, ma cosa avevi avuto il barbaro coraggio di pensare? Che Caporetto, mamma mia. Io non sono quello, hai gridato. Io. Non sono. Questo. Che ho scritto. E allora, non sai come, hai capito: la differenza tra parlare in Io e essere io. Che sono due cose diverse, questo hai imparato. E allora hai detto: non lo faccio più, non lo faro mai più. Io non è quello che scrivo. Io sono intera. Scrivere è un’altra cosa. Non sai cosa, ovviamente, ma insomma. Quindi adesso, quando parli in Io, non sei tu che parli. Di te, adesso, qui non c’è più molto. Qui si parla in Io, ma è sempre le congiunzioni che intendi. Non te.
Il tuo piccolo te… è una cosa di cui c’è molto poco da raccontare. A meno che non si voglia far finta, come ha detto.. chi l’ha detto? Far finta che sia, la vita, una storia che si può raccontare.
Che come glielo spieghi, tu, a lui, a lei, a te, che cosa significa toccarlo, il resto, l’altro, toccare le cose, le persone, toccarsi fra esseri umani, con la voce, con le dita, accarezzarsi il viso come ciechi, perché così spesso ti ritrovi cieca in questo groviglio di corpipensieriparole di cui non capisci niente e che è intero anch’esso e che è l’intero che ti contiene, davanti al quale non sai far nient’altro che arrenderti, aprirti e infine vuotarti come il recipiente che lui un giorno ti ha fatto scoprire di essere, e così scorrere sulle cose, gocciolare come acqua, e sfiorare, e filtrare, per capire, o almeno provarci, per tentare di ri-conoscere, distinguere, e infine forse conoscere, un giorno, magari chissà. Ma anche no.
Come lo spieghi, questo? Come lo spieghi cosa vuol dire mandare un sacchetto di mandorle – che hai colto con le tue mani sfregiandoti le braccia – a ottocento chilometri di distanza solo per dire grazie perché mi fai sorridere, come lo spieghi che cos’è un inverno passato a macinare chilometri non per l’impresa in cui ti eri gettata, ma per la persona con cui avevi preso l’impegno di portarla a termine? E le Voci, all’ufficio postale, al bar, in quel treno lungo come l’Italia intera che nonostante tutto ancora sa di sudore e a ogni regione cambia lingua, colori, fisionomia? Ma veramente, parliamone, come si spiegano le volte in cui, appena arrivata, hai sentito parlare un idioma mai sentito prima e – incredibile! – hai capito il senso di quel che veniva detto pur non avendone compreso una sola parola? Come pensi di poter spiegare i sogni, i segni, i tremori, la gioia del tornare a far scorrere la mano sulla carta senza dolore e la cicatrice, come la spieghi, quella, che la ringrazi ogni volta, ogni santissima volta che le dita si stringono di nuovo intorno alla penna? Far finta che sia una storia da raccontarsi – così si fa, forse.
Ma se non si sbroglia prima questa questione dei pronomi… no, non si può fare. Proprio no.
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