Il cruscotto illuminato dalla luna, vado. Anzi torno. Anzi vado, ché è tornato. Anzi andiamo, insieme. Anzi, torniamo lì, perché era da tanto.
Al ritorno abbiamo la luna di faccia. Piena piena.
Che poi uno si rigira tra le mani il biglietto del parcheggio trovato dopo aver fatto quattordici volte il giro di tutti i vicoli di Via Morghen, e allora dirlo non sembra più così stupido.
Miseria, ma quanto mi sei mancato.
Quanto mi sei mancato.
Buonanotte. Vaipiano. Squillaquandarrivi.
Quanto mi sei mancato.
Che poi uno torna a casa, si lava i denti. Si avvicina alla scrivania, posa lì il biglietto del parcheggio, e trova. Una luce che.
Forte. No, anzi. Che pesa. Parole che a dirle ci trovi dentro tutti i pesi della luce, che ti pare quasi di poterla prendere, misurarla sul palmo, posarla sulla mensola della libreria. Che ti piacerebbe proprio mettercela, quella luce, lì sulla mensola, e poi sederti sul letto a guardarla mentre le ore passano e la luna vive la sua notte di pienezza. Senza spiegarti niente. Ché la luce c’è, sta lì, e che ci puoi fare? Niente. Anche se ti piacerebbe prenderla in qualche modo, ma non solo toccarla. Berla, masticarla a lungo, in intramuscolo… forse, sarebbe meglio. Ma, eh, non si può. C’è, sta lì, e questo è tutto. Ma perché ‘sta luce è venuta a risplendere proprio qua, stasera? Pussa via, bovino, non tutto si rumina.
Guardale, come sono belle: dopo, corpo, cosa, funzioni, dinamiche, domanda, però, male, bene, leggero, scrivo, sorrido.
Guardale, come sono belle, piene e lucenti, come quella pietra che spande luce lassù.
Guarda come sono belle, e po’ adduòrmete. Il loro peso ti dice qualcosa che prima non sapevi. Certe hanno la luce, il peso di un seme. Altre quello dell’acqua. La gravità darà il posto giusto ad ogni peso, ad ogni luce. Sulla terra, o nell’onda di marea.
Ma che ne sai, tu, che sai solo ruminare? Guardale, come sono belle.
E dormi, ora. Con tutta questa luce intorno. Che torna.
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