Rigetto (sfogo olfattivo con promessa di non-cancellazione)


I’m getting feelings I’m hiding too well
(bury the horse shaped shell).

Something broke inside my stomach
I let the pieces lie just where they fell
(being with you is hell).

[S. Wilson, Open car, 2005]

 In questi giorni mia madre mi ha lavato le scarpe da ginnastica (eh, che tien’a guarda’? Casa mia sta in un pianeta dove le scarpe, quando sono zòzze da buttar via, si la-va-no) e stamattina che devo andare all’università me le metto, candide come la neve nemmeno fossero tornate nuove. Voglio proprio vedere stasera come me le ritrovo.
 Si esce di casa alle sette e quaranta, e un’altra giornata dituttigiorni comincia. Ma insomma, mica è proprio una giornata normale, questa. Come un presagio funesto, il mondo stamattina s’è svegliato intriso di una – per queste parti – del tutto anomala quanto spessa coltre di nebbia, degna della più tipica giornata d’inverno milanese. E’ un pregiudizio della mia gente vecchio di almeno un secolo, quello di guardare a questo fenomeno atmosferico con sospetto e inquietudine, e in effetti, be’, appena io e la veneranda genitrice mettiamo il naso fuori ci sembra di star partendo all’avventura. "Cavolo, ma non si vede proprio niente. Guida tu per piacere, ché ci sei più abituata…". E già. Le sorrido, ci cambiamo di posto. Non si può darle torto, qui in genere non si ha molta dimestichezza con la visibilità ridotta, e quello di stamattina è proprio un bel nebbione in piena regola, di quelli che qui capitano così di rado che ogni volta è sempre la prima volta. "Ma’… ci credi? Pare Padova a novembre". "Secondo me Padova o Bologna o qua, quando non si vede una mazza, sono la stessa cosa". Eh. Ok, si vede che stamattina non è giornata. E no. Proprio no.
"Ma’… non è la stessa cosa. Non lo senti?". "Eh. Certo che lo sento, stong’ murenn’. E’ molto peggio delle altre mattine". Lei, che è asmatica, lo sente anche di più, questo fetore inconfondibile. Munnezza bruciata. E già. Ci scambiamo uno sguardo, ci siamo capite. Lei alza un secondo gli occhi al cielo. "E’ sempre la stessa cosa. Sempre, sempre". Al semaforo dell’incrocio di San Marco del Vialòne il fetore si fa insopportabile. Stanotte hanno dato fuoco al cumulo lungo cinquanta metri che marcisce accanto all’ingresso dell’hotel Vanvitelli da sei mesi, con un tempismo che te lo raccomando. In alto, due elicotteri, uno blu e uno arancione, si incrociano facendo il giro della città. "Aheee’, è schiaràta ‘a jurnata…", e poi alza la voce e domanda ai numi: "ma cumm’è, comme c’è vvenuto ‘e venì proprio ccà?". Me lo sono domandato anch’io, a dire il vero. Mezza città se l’è chiesto nei giorni scorsi… ma, per quel che so, nessuno è giunto a darsi una risposta che suonasse anche solo lontanamente plausibile. Personalmente, propenderei per l’ipotesi di un bel pranzo in un ristorante d’eccezione… diciamo la verità, chi non si sposterebbe di centosettanta chilometri per sedersi a tavola in una location come il prezioso gioiello vanvitelliano della Campania Felix? Eh be’. Ma comunque.
Intanto, l’altra metà della cittadinanza che la domanda non se l’era posta aveva preso la cosa da quello che forse era il lato migliore: e vabbuo’, per lo meno mo’ ce levano ‘a mmunnezza. Credevano. Dicevano. Pensavano. Speravano. E invece.

 Sotto il cumulo incendiato, oggi l’asfalto torna alla luce nero dopo sei mesi, una macchia scura senza senso nell’arredo urbano. Quando passiamo noi il fuoco è già spento, e dentro un anonimo container stanno tirando su quel che ne resta. Lei tossisce, e tossisce, e tossisce, e diomio, ora dobbiamo solo filare via più in fretta possibile, prima di essere costrette a prendere la direzione dell’ospedale invece che quella di Napoli. Mi tornano in mente gli attacchini che in questi mesi, di notte, per affiggere i manifesti pubblicitari sui cartelloni alle spalle di quella catena montuosa in decomposizione dovevano scavalcare un muro di sacchetti alto due metri. Dallo scorso settembre vederli al lavoro era penoso. Emergenza rientrata, avevano trionfato altrove. Ma dove?
 Quando finalmente mia madre smette di tossire abbiamo passato l’uscita di Acerra-Afragola, e qui nella nebbia ristagna un altro fetore, diverso, ancora peggiore della monnezza appicciata: quello dei Regi Lagni e dei rifiuti tossici che le fabbriche dei dintorni di Napoli ci fanno finire dentro ogni giorno. Guarda il gigante che dorme ormai alla nostra sinistra con occhi assenti, per qualche lungo minuto. Poi dice: "la reggia c’ha la vista sul Vesuvio… ma se s’affacciano da quella parte la devono vedere per forza…". "Cosa, ma’?". "La ciminiera dell’ex Saint-Gobain. E se vedono quella, vedono pure ‘a muntagna". "Eh". ‘A muntagna. Così ormai chiamano il cumulo di rifiuti che da quasi tre anni riposa sotto il cielo a poche centinaia di metri da casa nostra. E’ enorme. Enorme.
"La devono vedere per forza", continua, e pare quasi che per lei sia una speranza, "per forza. E quando la vedono, che gli dicono? ‘Oh, guardate che bravi che siamo stati, là c’è tutta la monnezza delle emergenze di due province degli ultimi tre anni’? Ma come… com’è possibile che so’ venuti qua… nun c’hanno manco lavato ‘a faccia…". "Eh. Ma magari non li fanno nemmeno affacciare… ricordati come l’hanno chiamato, al tiggì… come quando eleggono il Papa, che i cardinali non possono nemmeno guardare fuori". "Maronna mia… e la discarica? Secondo te qualcuno gliene parla dell’Uttaro?". "Secondo te?". "Eh. Tiene raggiòne, che domanda cretina…". Si interrompe. Poi: "Vabbuo’. Nun ce sta veramente cchiù nient’a fa’, allora". Con la voce affaticata di chi prende atto, che so, dell’inevitabilità di una morte.
Ci si mette un sacco di tempo per arrivare a Napoli, una ventina di minuti in più del solito. Si va piano, con non più di cento metri di visibilità. Eh, sì, è vero che non ci siamo abituati. L’aria è appiccicosa e puzza di carogna, adesso… che è l’odore dei dintorni del mercato ortofrutticolo. "Altra puzza, altro giro", fa, "andiamo a pigliarci un caffè, va’ ". Siamo arrivate. Ci so’ ‘sti grattacieli nella nebbia che pare Milano. Che giornata di merda. E sono solo le otto e mezza.

***

 Davanti alla pensilina del capolinea di Piazza Nazionale c’è da scartare una pozza di vomito rosso e bluastro, per chi deve prendere il tram. Siccome arrivo di corsa non faccio in tempo a rendermi conto che c’è un punto in cui la gente evita di passare, come se ci fosse un ostacolo. Sbracciandomi per chiedere al conducente di non chiudere le porte nel timore di non riuscire ad attraversare la strada in tempo, mi precipito chiedendo permesso e nel gruppetto di quelli che scendono si apre un varco proprio lì davanti… una voce fa "attenziooooo’!", ma quando mi accorgo della tinta anomala della pavimentazione è ormai troppo tardi. Ciac. Scarpe della casertana, e senza nemmeno essere tifosa. Yu-hu!

 Riesco a prendere il tram, però. Uno di quelli vecchi, strombazzanti e sferraglianti, che mi stanno più simpatici di quelli nuovi, e siccome non è affollato posso anche mettermi dove mi piace di più, cioè vicino al conducente, accanto alla porta. Da lì, dall’alto degli scalini, ho una bella vista sulla chiazza melmosa che ho appena solcato. Madonna. Rossa e blu. Fratello, ma cosa cavolo hai mangiato. Devi essere stato proprio male, accidenti a te.
 Mentre sono lì che contemplo il luogo dell’incidente, si chiudono le porte e la vettura fa quel suo movimento sgraziato, come al solito, per prendere l’abbrivio necessario alla scivolata verso il mare. Solita macchina parcheggiata sui binari, davanti al bar. Dal fondo si sente un imbestialito "‘o vir’ ‘u strunz’ d’o gioverì ammatìna, s’è juto a piglia’ ‘o ccafè!". Guardo avanti, oltre la spalla del conducente, da qui per la foschia non si vede nemmeno l’incrocio con Corso Garibaldi, e sì che fa un certo effetto. Mi giro e appoggio la schiena al plexiglass che mi separa dall’omino che muove le manovelle del tram, e mi ricadono gli occhi sulle scarpe. Mado’, ma io quando stamattina ho pensato vediamo quanto dura ‘sto bianco scherzavo. Sbagliato, sbagliato, stamattina è tutto sbagliato, più degli altri giorni. E risento la tosse di mia madre. E mi ripassano davanti agli occhi ‘a muntagna, e i gabbiani. E ripenso ai falò, e a Mimmo, e a tutti quelli che per quella munnezza ci hanno lasciati prima del tempo. Perché il fatto è che da queste parti ti insegnano… no, anzi, non ti insegnano proprio niente, è solo che ti viene sbattuto semplicemente nello stomaco e sotto i piedi tutti i santissimi giorni, che ‘a monnezza e ‘o mmalamente stanno dappertutto e non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno al colore di una bandiera o a quale delle due mani usi per mettere una firma. La monnezza non ha colore, non ce l’ha mai avuto perché ha sempre dato da mangiare a tutti i saprofagi di questo mondo, sicché tu lo capisci benissimo da subito cosa c’è da fare perché le cose vadano diversamente… e se non lo fai è perché non lo vuoi fare, e non vuoi capire. Perché è meglio se la colpa è sempre la loro. Per cui.
Per cui può capitare che una mattina ti svegli per cominciare la tua giornata dituttigiorni e ti dici, con le scarpe appena lavate, vediamo quanto durano. E i polmoni di tua madre hanno fame di un’aria che non possono avere, e quelli lì ti vengono ad un passo da casa e tu non riesci a vedere la differenza tra loro chiusi lì dentro e voi chiusi qua fuori – che anche quando c’erano gli altri di quell’altro colore, lì dentro, qua fuori era la stessa, identica cosa – in mezzo alla munnezza che vediamo, che siamo, e ma dove cazzo vogliamo andare se poi vedi come gli altri ti guardano e ti ridono in faccia quando si parla di differenziare… perché poi se non c’entra il colore della bandiera allora non è un fatto di pochi, vuol dire che siamo tutti, che ci siamo tutti dentro, e allora se tu a prima mattina esci nella nebbia in un posto dove la nebbia non c’è mai stata, allora la sensazione è quella che sta succedendo qualcosa di tremendo, e che in questo qualcosa di tremendo ci siamo tutti dentro, io, mamma, noi, loro, ed è una specie di sicurezza senza certezza, perché poi uno alla fine è umano e deve pensare che prima o poi anche il fondo su cui siamo arrivati e stiamo scavando già da un bel po’ di tempo finirà, deve finire, e che prima o poi a furia di scavare finiremo almeno all’altro capo del mondo. Uno a ventisette anni questi pensieri li deve fare, per forza, anche se poi a prima mattina finisce con le scarpe – tutte e due! – in una pozza di vomito rosso e blu, ché poi nel tram te le guardi e ti pare che ci stia proprio tutto bene, nel quadro di questa mattinata tutta sbagliata di munnezza, vomito, nebbia e i mostruosi odori con cui convivi da almeno vent’anni a questa parte, ché persino il vomito non ti fa più né caldo né freddo, e pensi che devi essere diventata una specie di creatura mostruosa se una signora che potrà avere sì e no l’età di tua madre ti si avvicina, gentile, e ti offre un pacchetto di fazzoletti di carta, se per caso te le vuoi pulire. E tu le fai tanto d’occhi così, perché all’improvviso ti rendi conto che tutto il tram sta inorridendo per quello che hai sulle scarpe, tutto il tram e tu no, che invece stavi cercando di stabilire di cosa si trattasse, così, con quella curiosità senza giudizio che si riserva alle piccole cose di tutti i giorni, vino e qualcosa di andato a male forse, ti dicevi, e peccato doverle già lavare di nuovo, però, con questa umidità chissà quando si asciugheranno. E sei rimasta a fantasticare sul rosso e sul blu, e ti è tornata in mente quella canzone, l’esercito delle forchette, che non lo ammette, che non si ammette, e guardandoti le scarpe ti sei persa nella disgustosa ironia di questa giornata e hai pensato alle forchette rosse che di un disastro di proporzioni enormi hanno fatto un commercio grosso come ‘a muntagna, e alle forchette blu che su quella montagna hanno continuato degnamente l’opera di quelle che le avevano precedute ingrassandola fino a farla diventare tre volte quello che era all’inizio, e a tutte le altre forchettine del servizio di posate, che non sono colorate ma hanno i rebbi così ben appuntiti…

…questo penso, mentre mi guardo le scarpe e il tram inorridisce appestato dal guazzo bicolore sulle mie scarpe non più candide e la signora gentile pensa che forse io per prima ne sono imbarazzata e un po’ inorridita. E invece sto solo ricordando che stamattina avevo pensato vediamo ‘sto bianco quanto dura, e che mi ero quasi messa a ridere, prima che lei mi porgesse quel pacchetto di fazzoletti facendo capovolgere il pensiero in una sensazione del tipo: questa terra ci sta mutando. In quella cittadina putrida stiamo imputridendo tutti. E sì che è tutto sbagliato per davvero, penso mentre mi siedo cercando di fare buon uso dei fazzoletti della signora, se prima stavo per scoppiare a ridere e adesso mi chino per nascondere la lacrima di rabbia che mi sfugge così, senza chiedere il permesso al cervello, mentre ripenso di nuovo a mia madre che dice "nun ce sta cchiù nient’a fa‘", e alla discarica che, se veramente ce la fanno sotto il naso, non ci sarà più niente da fare. Un se. Guarda cosa ci resta, in questa fogna. Due lettere. Una esse e una e.

 Quando finisco di nettarmi le scarpe – che comunque sono da lavare di nuovo – mi raddrizzo sul sedile e trovo la faccia gentile della signora gentile ad aspettarmi con un bel sorriso che la illumina tutta. Si vede che è contenta di avermi tolto dall’imbarazzo che prima non provavo, e per completare l’opera aggiunge un "Ja’, nun te preoccupa’, po’ capita’…" con tanto di pacca sulla spalla che mi disorienta così tanto da finire con il ringraziarla. Sul Corso Garibaldi il tram che ci precede si ferma per un guasto, quindi si ferma anche il nostro. Scendiamo tutti, e ognuno se ne va per la sua strada nell’aria ferma e appiccicaticcia. Camminando incrocio una fontana pubblica di pietra, una vasca tonda che è uno stagno ricoperto una melma marrone che copre tutta la superficie dell’acqua da cui affiorano tre ombrelli sfasciati dal vento e colli di bottiglie di plastica dal tappo rosa. Sa di stantìo e di erba marcia. La guardo, rivedo la schifezza di piazza Nazionale, e all’improvviso tutto inizia a sembrarmi segno di questa terra che finalmente si è decisa a rigettarci, a vomitarci via tutti in un in un solo lungo (ché i suoi tempi non sono i nostri, e si fa fatica da umani a concepirne le dimensioni), enorme spasmo di sofferenza prima di ricominciare a respirare, possibilmente senza più l’ingombro del nostro culo sui suoi polmoni.
 Dura solo un momento, ma mi pare mezza giornata. Anche il gabbiano che mi passa sulla testa con una buccia di chissà quale frutto marcio nel becco, anche la nebbia sputata fuori dalla terra umida delle campagne intorno all’autostrada questa mattina, la fontana, l’aria e l’acqua e la terra che puzzano, tutto per un lunghissimo momento dice: vattene, qui non ti ci voglio più, vattene, mi fai male, mi uccidi, ora basta. Se non te ne vai tu, ti butto fuori io. E dopo sono cazzi tuoi.

E quando mai sono stati di qualcun altro, vorrei sapere.

(so’ pesante, ‘o ssaccio)

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