Della città pallida (e poco altro… che so, una vocale)

 Quasi mezzogiorno, e un’ombra che appena si vede. Appena appena. Da sentirsi trasparenti, quasi. Appena appena presenti.
Questo è il tempo che più riconosco a questa città: cielo bianco, umido e tiepido di scirocco e di un sole pallido. Pallida. Di tutte le volte che ci sono venuta, solo in un’occasione l’ho trovata inondata di sole, sotto un tetto di un blu uniforme come non l’avevo mai visto. Ma mi era sembrato quasi un altro posto. Ricordo un giorno d’inverno che tirava un vento così così freddo che decidemmo di rientrare perché non avevamo addosso vestiti abbastanza pesanti. Ne ricordo un altro che i tetti da quassù si vedevano a stento, non un filo di vento, il piccolo anemometro a coppe che sta sopra la banderuola a forma di leone quasi del tutto immobile. Quando venivamo qui al cinema, era sempre così. Sarà che ci si veniva col freddo, più che altro. Sarà.
 Ecco, anche adesso la banderuola è ferma. Quante cose di questo posto non conosco… e tu, che mi passi davanti per la terza volta, che fai fotografie dall’alto delle mura… anche te non conosco. E’ vero che si è ombre, spesso, nel mondo. Per molto meno di una parola, per molto meno di uno sguardo, per molto meno di un passo, per molto meno di niente.
 C’è un angelo qui sopra davanti a me (qui sopra davanti?) con il braccio teso davanti a sé, che indica con prepotenza un punto da qualche parte alla mia destra. Non so dove guardi, lui. Glielo vorrei domandare. Dove guardi? Come vorrei domandare a quel signore sulla panchina laggiù, vicino alla scalinata, cosa sta fissando da almeno dieci minuti, e a quei ragazzi dall’altro lato, seduti sugli scalini del pozzo vicino al muretto di cinta, per quale motivo ridono, ché le loro risate sono tanto forti da risuonare per tutta la spianata del castello. Cosa guardi, signore? Perché state ridendo così forte?
Alle mie spalle sento il ronzare, ovattato dalla foschia, di un cantiere al lavoro, mentre un elicottero dei Carabinieri per una decina di secondi copre tutti gli altri suoni con il secco frullare delle sue pale.
[tototototototototototototototototototototototototototo…]
Sul tetto del castello c’è una torretta che sembra un faro, solo che al posto del faro c’è un tricolore, moscio lungo l’asta ché vento non ce n’è più. L’aria ha smesso di muoversi del tutto. Sul muretto qui dietro la panchina dove siedo ritrovo la stessa pianta di quel giorno di un mese fa in Costiera, che ne avevo preso una foglia ma poi non ero più riuscita a sapere quale pianta fosse. Vedo ora che non mi ero accorta che si trattava di un’edera. Mah. La cicatrice sul polso è arrossata, stamattina, e pizzica da morire. E il sole è bianco e, invece di infilarmi nel groviglio di stradine ai piedi di questa collinetta (come forse dovrei fare) me ne sto qui, su questa bella panchina rossa ad annegare nel suono di questi tre quarti d’ora d’attesa. Che finiranno tra un quarto d’ora. Ma che ci devo fare, certe volte invece che camminarci sopra, a uno spazio, preferisco aspettarci dentro. E’ mezzogiorno. Udine è piena di campanili, si stanno mettendo a suonare tutti insieme. Di tutte le panchine, qui (ma a chi gl’è venuto in mente, di continuare a chiamarlo castello, ‘sto posto?), solo questa e quella del tizio che prima fissava non so cosa e adesso legge il giornale laggiù, vicino alla scalinata, sono occupate. Sul belvedere qui a sinistra c’è un signore con i capelli tutti bianchi che fuma la pipa e guarda la città. Il sole s’è fatto ancora più pallido, non scalda quasi più. Anzi, proprio per niente. Ancora campane… campane di mezzogiorno e sferragliare di lavori in corso.
Rintocchi più lenti, adesso.
Anzi, no.
Finiti.
S’è alzato un alito di vento. La bandiera sopra la torretta del castello non è un tricolore, ma quella del comune di Udine. Passano tre turisti, che spariscono dietro un albero. Ma che ci faccio dentro questa scrittura, ogni tanto mi domando. C’ho qua ‘ste due voci, distinte e separate, che viaggiano per cazzi loro, ognuna su binari e incontro a destinazioni totalmente diverse, nel tempo e nello spazio. Dico, ma che ci faccio io qui? Per il momento, sto seduta su una panchina di ferro rossa, si direbbe, e aspetto.
Mannaggia, ma è ora.
Non aspetto più.
Vado.
Arrivo.

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