Seduta sotto una loggia dal soffitto di legno con le luci gialle che si accendono al calare del giorno e le chiappe su una lastra di pietra fredda – ma non troppo – ascolto.
La pioggia sottile che satura l’aria, lo sguardo di Ercole fisso in questa direzione da trecento anni, le ciàcole delle tre signore là, davanti allo scalone, e ancora la pioggia sottile, ssssssssssss, così fa, sotto sotto, infilandosi sotto la pelle di tutti i suoni, e quei bimbi che hanno gli ombrelli più belli di tutti, la musica che viene dal caffè dietro l’angolo, e ancora la pioggia, e insieme alla pioggia una voce che pure viene giù così bassa e sottile che a momenti si fa fatica a distinguerla dall’umidità, dalla piazza, dal resto. Cade la voce, cade la pioggia, cadono rumori e colori in quest’aria piena d’acqua in cui si disegnano in trasparenza le linee di forza della gravità che ci tiene, ci trattiene qui seduti, spinge verso il basso tutto, tutto, la loggia, la piazza, la pioggia, le voci, tutto, tutto questo che cade, gocciola, filtra nella terra delle mani delle orecchie degli occhi e scende, si deposita e prende posto dove vuole, nel caldoghiaccio della terra d’autunno che presto inzierà a gelare in superficie per poi continuare il suo segreto lavorìo di viscere durante l’inverno. Perché è autunno, dopo tutto, di nuovo, e con la benedizione del dio distante bisogna lasciare aperte le porte orizzontali delle dispense.
Senza bisogno di dire nulla: la gravità, la pioggia, le voci faranno il resto.
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