κιανοσις

  Sulla soglia dell’alba mi è spuntata improvvisamente accanto, alla fermata di Piazza Vittoria. Non l’ho sentita arrivare: guardavo il cielo di ghiaccio, bluastro, limpido, livido.
Ue’, ciao, mi fa, girata di tre quarti alla mia sinistra. Ciao, ragazza. Le sorrido, forse, non mi ricordo bene. E’ ancora in luna piena, lei, ha lo stesso pancione e lo stesso viso dell’altra volta. Si gira verso il mare e verso di me, e allora lo vedo: un fagottino piccolo piccolo, grande non più di una spanna, dalla pelle dello stesso colore del cielo, avvolto in un uno spesso, soffice, caldo panno di lana bianca. Lo tiene in braccio come se. E’ così piccolo che non sembra quasi vero.
 Qualcosa d’un tratto mi si schianta nello stomaco. E’ il suo nome, il suono del suo nome che va in pezzi. So da dove viene, questo fagottino, e so dove sta andando. Conosco il suo nome. La giovane Lunapiena non lo conosce, ma per lei fa lo stesso. Mi sorride dolcemente, lei, mentre si volta verso il solito chiassoso tram che arriva dalla curva del Chiatamone. Oooh, finalmente, sospira, ‘stu tram… non passava da tre settimane, eccheddiamine.

Allora ciao, noi andiamo, mi dice continuando a sorridere.
Certo, sì, rispondo.
[macheccazzodirispostaè, certo, sì ? Vai con lei! MUOVITI!]
Adesso glielo dico, penso, mo’ lo chiamo. Con il suo nome. Così si fermano. E invece no, resto immobile. Non riesco a respirare. E’ per via del cielo. E’ il cielo che non mi fa respirare.
Il cielo, io, il fagottino muto, nessuno di noi tre respira, forse anch’io sto diventando del loro stesso colore mentre lei, il suo pancione e il suo viso da dietro il vetro del finestrino dicono: no. Stai lì, tu.
Ma non respiro, santiddio. Aspetta un secondo. Fammi respirare. Fammi…
No. Ciao.
Ciao. Ciao…

Apro gli occhi.
E i polmoni. Che si inondano d’aria come un barattolo sottovuoto appena svitato il tappo.
Mi sento la faccia rigida.
Ciao, dice il soffitto bianco. Ciao.

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