Otto anni, oggi… "e non sentirli"? Magari. Tutti tutti, ci stanno. Per fortuna che questi sono di quegli anni che ti si sedimentano nelle mani, così non è che è proprio facile che gli altri se ne accorgano. E, a dire il vero, per intere fette della mia vita non me ne accorgo nemmeno io. I segni sulle mani, che faccenda strana. Ma vabbe’.
Mi ha chiesto decine di volte tuttocchèi?, staibbène?, nelle ultime ore, con aria intenerita e preoccupata. E io: sissì. E non è che non è vero, è solo che.
Per fortuna che le date non le ricorda… dei miei buchi sul calendario non c’è nessun bisogno, diciamo la verità. Oppure se ne ricorda e sono io che credo il contrario? Boh. Devo chiederglielo… ma non oggi però, ché oggi è uno di quei giorni sul ciglio, sul ciglio, e io e il mio costante dis-quilibrio già facciamo fatica a stare in piedi normalmente, figuriamoci adesso, che un punto interrogativo sarebbe una falce calata dritta dritta sulle ginocchia (le mie), pure se la domanda la faccio io. Vabbè, ne parliamo un altro giorno, allora.
Sul ciglio, quindi. Ci vado, ci vengo, ci resto, per oggi. Sul ciglio di una strada dove passano poche macchine, per la precisione, tra due cipressi alti alti. Ci sono venuta per cercare un po’ di quiete. Assenza di rumori di fondo non ce n’è ma insomma, così già è meglio che tra clacson, il fracasso dei lavori del padiglione nord della Fiera e ventole che raffreddano processori. Oggi preferirei di no, veramente.
Stavo pensando poco fa, a ritmo di pedalata: datemi il tempo, e ci riesco, a non sentirmi, fuoriluogo, danessunaparte. Non straniera. Non foresta. Non pensavo alle radici e a straniera nel senso di estranea. Pensavo a qualche altra parola, del tipo: accolta. Ma poi ho dovuto frenare all’incrocio, e il pensiero è rimasto a metà. Quando ho ripreso a pedalare, ne era già iniziato un altro.
Sono uscita di casa per rintanarmi sotto il cielo. Qui nessuno può trovarmi. Ci sono sempre venuta da sola, qui, così nessuna delle persone che conosco riuscirebbe a farsi un’idea di dove mi trovo nemmeno se provassi a raccontare come ci sono arrivata, che strada ho fatto, i luoghi per i quali sono passata. Nemmeno lui ci è ancora mai venuto. Questo pensiero mi sembra… non so. Una vertigine, forse. Un piccolo monumento ai Caduti sperduto nel profondo della campagna friulana, trovato un giorno per caso, veleggiando a vista tra un campanile e l’altro. Un luogo in cui il consesso umano di cui incidentalmente faccio parte non può arrivare. Che strano. Fuori. Qui sono fuori. I nomi che potrei elencare nel tentativo di dare l’idea dalla mia posizione geografica direbbero meno di niente a quasi tutte le persone da cui potrei eventualmente voler essere raggiunta in questo momento. Livenza, Tamai, Palse, Sentirone. Vengo da un’altra geografia, in cui nessuno conosce questi nomi. Fuori. Fuori dai miei affetti. Penso a quella lì che è in Francia, a quell’altro che forse è in Portogallo, a quello che sta a Napoli, a quell’altra che di solito sta a Londra ma adesso è in Puglia, e a lui, che sempre chiude il cerchio – sempre per ultimo, chissà perché – che è a casa che riposa dopo una faticosa settimana di lavoro.
Penso: adesso mi nascondo. Basterebbe che spostassi le chiappe da questo muretto al suolo per non essere più visibile nemmeno alle auto di passaggio. Mi nascondo un attimo, perché quest’anno il buco sul calendario s’è fatto risentire, dopo quello scambio di battute. Già. Un caledario bucato col trapano, c’ho a casa, in qualunque casa io abiti. E’ per questo che forse.
Mi nascondo, penso di nuovo. Non so se mi stia incitando o se stia provando a darmi un ordine. Di qua c’è il campanile di cemento grigio bruttissimo di un paese, di là quello bello merlato di un altro. A me ‘sto Friuli certe volte mi dà l’impressione di essere una terra fatta per i foresti, non per quelli che ci abitano. Anche se ci affondi dentro per la prima volta e ti sembra solo un mare sconfinato di campi di mais ("ma che ci faranno con tanto mais, santiddio?", "Eh! Che ci dobbiamo fare secondo te? La polenta!") basta uno sguardo a trecentosessanta gradi per capire in quale direzione devi andare e grosso modo quanta strada devi ancora fare per trovare le prossime case, il prossimo Bar Sport, le prossime facce solo a guardarle sappiano raccontarti del posto in cui sei capitato. E allora vedi che non te la dò, la soddisfazione, Uomo del Nordest. Non mi freghi, sei tutto chiacchiere e distintivo se mi regali un posto così dove nascondermi, fuori, sotto il cielo. Grazie.
Per cui adesso mi nascondo, perché il buco nel calendario pulsa dietro le tempie, anche se non importa niente. Quello che importa veramente è che, a furia di andare in giro in bici per queste strade, comincio a vedere i colori che questa stessa fetta di paesaggio prende a seconda del variare del tempo e delle stagioni, inizio ad incontrare qualche faccia non più nuova sulla strada a seconda delle ore del giorno e quindi, con il passare del tempo, ad avere meno timore nel salutare qualcuno o nel fermarmi a scattare una foto, o eventualmente nel chiederne il permesso. Comincio ad avvertire, con gli anni, il senso della profondità di questo posto. Che non è più solo paesaggio. Posto, dico.
Sono giorni di grande silenzio, questi, ma la campagna è viva.
Ad uno scricchiolìo dei pedali solo un pochino più forte degli altri, da un campo di mais in un attimo si leva – senza chiasso, solo un frullo d’ali che sembra ne stia volando una sola – una nuvola nera di centinaia di tortore che in pochi secondi si spostano più in là con un unico, immenso, fluido movimento volteggiandomi sulla testa e oscurando per un attimo il sole, lasciandomi paralizzata sul ciglio (sempre sul ciglio, vedi) della strada. Sotto la pelle dei campi che aspettano l’ultimo sfalcio e di quelli già messi a maggese si prepara l’arrivo dell’autunno, del tempo delle scorte, e se si sta ad ascoltare dopo un po’ si sente che sotto la superficie di questo mare verde appena lavato dal temporale di stanotte è tutto un pullulare di uomini e donne robusti e sudati che faticano, e iniziano a dirti ciao! quando ti vedono passare per la trentesima volta in un mese davanti a casa loro sicché tu, infine, ti senti come uscire da un caìgo che aveva cancellato l’asse zeta dello spazio e, ogni giorno meno incorporea, riscopri la meraviglia di avere un’ombra, di alzare una mano e rispondere al saluto con un sorriso – un sorriso che poi ti accompagna fino a casa, impastato insieme ai tuoi buchi sul calendario e a tutto quello che hai visto in questa stagione in cui non hai fatto altro che leggere, camminare, pedalare, guardare le nuvole e stare in silenzio, nel silenzio più profondo che tu abbia mai sentito in tutta la tua vita. Anche quando era la tua, la voce che stava parlando.
[post del 25/08/2006, andato perso per una bizza dell’editor di Splinder e recuperato grazie alla copia cache di Google]