Graziemille (compl. di term.: il biciclettaro). Oppure: ciao, elicottero!

La quarta volta, invece, è fatta. Lei spalanca le braccia, belle carnose e paffute, e io imbocco l’abbraccio come un’auto in corsa la galleria della tangenziale tra Fuorigrotta e Agnano – nelle domeniche d’inverno, però, quando è deserta e il tramonto sui Campi Flegrei è una sola, enorme, densa colata di oro zecchino.

Sono le due del pomeriggio del tre maggio, ho pranzato presto perché così, mi dico, vado a fare un giretto in bici visto che lui è al lavoro, io sono da sola, tra qualche giorno riparto e non me ne tiene di studiare perché la giornata fuori è bella, calda e asciutta. Chiama, insomma, e c’ho ‘sto nodo nelle viscere di cui mi devo dimenticare per un po’, giusto il tempo di riprendere un po’ di energie.

[Viscere, eh, vi-sce-re. ‘Sta parola non piace a nessuno, ma che cazzo, eppure ce le abbiamo tutti, le viscere… o i visceri, ché so’ maschi pure da me – ma che c’avranno, che non va, ‘sti benedetti stentìni? Se non la finisci ti metto ‘e st’ntin’ a tracolla, diceva Susi quando la facevamo arrabbiare, e io ridevo per ore]

Allora mi piglio una bottiglia d’acqua, la ficco nella bisaccia insieme a una felpa, ché non si sa mai, e mi avvio… sì, ma dove? Non ci ho ancora pensato. Boh, mo’ me ne vado per via Nuova di Corva, che dove finisce fuori Pordenone non l’ho ancora visto mai. Che poi a un certo punto non è più via Nuova di Corva ma la statale 251, e all’improvviso aumentano macchine e mezzi pesanti, non ha più la spalla e le carrozzerie altrui rischiano mi farmi la ceretta ad ogni sorpasso. Dieci minuti che sono in cammino e già mi sento un ‘ntecchia in pericolo? Andiamo bene.
In direzione di Tiezzo, dopo l’emmezzeta e una luuuuuunga curva che mi fa jettà ‘o sang’ per quanto vicino mi sfrecciano le auto di passaggio, supero il ponte su un fiume che credo sia ancora il Noncello ma che qui c’ha un letto che non gli riconosco, tutto marrone, che sembra scavato nell’argilla. Subito dopo il ponte scorgo un’indicazione per Fiume Veneto che indica, per l’appunto, una piccola strada laterale che sembra sparire nella campagna… l’istinto di conservazione la vince, e svicolo in tutta fretta e tutto a mancina, come dicevano gli antichi, per questo Vallon (come lo chiama un cartello) che attraversa la frazione di Corva.

[e dove poteva finire mai, in effetti, una strada che si chiama via Nuova di Corva?]

Sorrido. E’ deserta, la via, e attraversa un lungo tratto di campagna dove ai lati della strada ci sono campi lasciati a maggese e altri messi a grano e mais, e piccoli canali in cui gracidano forte rane che non si vedono. Incrocio ad un certo punto un cavalcavia della Pontebbana, e dopo poco entro nel centro abitato di Fiume Veneto. In lontananza, alla mia sinistra, vedo il cinema dove ogni tanto andiamo, e l’enorme traliccio dell’alta tensione che gli sta accanto. Nel centro passo un ponte su un fiume che non so come si chiama e mi fermo al rosso di un semaforo approfittando per scegliere quale strada prendere. Tra le varie, mi lascio convincere senza un particolare motivo dalla freccia San Vito al T. 12.
Scatta il verde, e riprendo a pedalare. Il motivo c’è, naturalmente, ma io ho la testa troppo vuota, in questo momento, per accorgermene, ridotto com’è a niente più che un’eco, che arriva… boh, ma che ne so da dove arriva?

[Tagliamento, Tagliamento, acqua, Tagliamento, fiumetagliamento, acqua, acqua, fiume, Tagliamento… che poi non lo so, non lo so… non è vero che non lo so, quasi mai è vero che non lo so, quando parlo di qualcosa che mi sta dentro, e però quando dico non lo so è che in realtà intendo: non lo so dire, perdonami se non lo so dire.]

Santiddio, se vado avanti così oggi mi ci faccio un nodo scorsoio, co’ ‘e st’ntini, come li chiamava Susi, così, che per capire come lo diceva anche la e devi elidere, sennò non si sente bene quando lo leggi. E allora, dico, che per togliermi dalla testa certe cose devo pedalare. Pedala, scema. Pedala. Muoviti.

C’aveva ragione il biciclettaro, cazzo, che ‘sta strada è fatta, sì, di un po’ de soferénsa, e cavolo se non gli voglio bene, adesso, a quel tizio con la faccia quadrata, per avermi dato questo, questa strada, tutti questi chilometri e tutta questa terra da percorrere, che è la sua ma me l’ha regalata sorridendo il giorno in cui mi ha indicato sulla mappa le piste, le strade dove poter portare a soffrire questa bici che c’ha il cambio che si inceppa – e insieme alla bici anche il mio cuore, i miei polmoni, le mie gambe e la mia testa che pure si inceppano, qualche volta, e nel passare da un terreno all’altro o una pendenza all’altra non rispondono più ai comandi.

[Da Fiume a Bannìa, passi sóto el campanìl e poi ti me piega a sinistra. Xe un par de chilometri, ti te trova un incrocio grande – ma grande – e te prendi a destra, e da lì in poi xe tuta strada dritta e pista ciclabile, no te rompi i bài nissuni, no te trovi nianca una macchina… solo poco prima de San Vito finisce, ma ormai te gavarà rivà se te vol vedere il paese… sennò, te torni ‘n drìo]

Ma io ci vado, a San vito, non ci torno indietro, ecco. Il cielo è di un blu surreale, oggi, c’è vento e si sta una meraviglia, no che non ci torno. Eh, ma com’è bella ‘sta campagna, però… e ‘sta  primavera… così diversa dalla mia… da dove la piglieranno tutta quest’erba, tutto questo ondeggiare al vento, così soffice, così… erboso. E’ così erbosa, ecco, la primavera, qui… proprio così morbida, come la parola erbosa che c’ha tutta la primavera firulana dentro… e e r che sono gli steli sottili, b e o che sono il morbidume, e s che è il rumore che il vento fa su tutta quest’erba… sssssssssssss….. ssssssssss….

A casa mia, invece, la primavera è un’altra, è di un’allegria più prepotente, ché quando il caldo prosciuga l’aria…

[prosciuga, eh, qui asciuga e a casa mia prosciuga]

… le strade si fanno polverose e le ginestre esplodono, e – da invisibili chiome di nudi ramoscelli  verdognoli o marroni che erano fino a un mese prima – all’improvviso sulle colline fanno scoppiare la guerra di primavera, ché si mettono tutte a tirar fuori fiori con detonazioni da bomba a mano, eh, bombe a mano di giallo che scoppiano ovunque, e negli angoli liberi lasciati da quel giallo qualcosa d’altro ci prova pure, a fiorire, e gli arbusti di macchia, che so, quelli che le nonne da noi chiamano ‘e ‘mbrellini pure spuntano da tutte le parti insieme ai rovi e al forasacco, che è un casino e nel giro di un mese di primavera non ci si capisce più niente. Che poi, visto che è di macchia, è spinosa la primavera di casa mia, perché sono le piante pioniere le prime ad accorgersi del sole, loro che per inclinazione naturale sono così eliofile, e sì che sembrano delle sciantose che fanno a gara a chi si mette prima il vestitino cchiù bbello, mentre invece stanno solo cantando la sveglia per quelli più lenti che stanno dentro il bosco e che, più anziani, ci mettono più tempo a carburare. Sono i primi scoppi del motore del risveglio della macchia mediterranea, loro, gli arbusti, quelli sprùcidi, che hanno le spine solo perché sono più bassi e devono difendersi in qualche modo, ma che in realtà sono la fanteria di un esercito che si sveglia per rimboccarsi le maniche e andare all’assalto della stagione calda che gli permetterà di sopravvivere – sempre che la Stagione Calda non faccia la stronza più del dovuto.

Ecco che cos’era, che di questa primavera non capivo. Ecco.
Erba, in luogo di spine. Questa è gentile, quell’altra è sfacciata. Questa xe calma, chell’ è nu burdell’. E sono belle uguale. E anzi, quella friulana mi cura quest’anno con il balsamo del suo silenzio, ed è un silenzio senza il quale forse non saprei come affrontare la festa, il casino della primavera di casa mia. Ho il tempo di pedalare e stare in silenzio, in mezzo a quest’erba senza spigoli, tutta tarassaco e polline di pioppo, a recuperare energie e parole per quando sarà il momento di tornare alla polvere, alle bombe a mano di giallo e all’asfalto che ti scotta i piedi anche attraverso le suole delle scarpe. E pedala, mo’, che siamo quasi arrivati. Quello laggiù non è il campanile il San Vito al Tagliamento? Pedala, su.

Poche macchine, molti mezzi pesanti. L’ultimo tratto pare piano ma non lo è e, cavolo, sudo i liquidi corporei fino all’ultima molecola. Ma sono arrivata…

[... mh, ovèro? E dove? Era veramente qua che volevi venire?]

… be’, uhm…boh. Entro dalla porta occidentale della città, passando per la via del Tramonto, e dopo un paio di svolte supero le mura e mi ritrovo sotto il campanile di Piazza del Popolo. Ci sono già stata altre volte, ma questa è la prima che ci arrivo così, con il vento nelle orecchie e il naso all’insù. Sono le tre e un quarto, secondo l’autorevole campanile, e sento che non ho ancora smaltito la pasta e ceci che con tanto amore mi sono preparata a pranzo. Che faccio adesso? Poiché il sole picchia forte, mi fermo su un lato della strada in ombra un poco più avanti per raffreddarmi un po’ e bere. Fin qui avrò fatto sì e no una trentina di chilometri, e non è che abbia esattamente idea di quale strada abbia fatto: le indicazioni del biciclettaro me le ricordavo, ma per la posizione sulla mappa non ci metterei la mano sul fuoco. Penso che mi ci vorrebbe una cartina, allora, anche perché il paese si chiama sì San Vito al Tagliamento, ma il fiume non si vede da nessuna parte. Là c’è un tabaccaio, entro a vedere e trovo delle mappe abbastanza  dettagliate della zona. Ne compro una e faccio per aprirla, ma poi mi accorgo che il negoziante sta sbirciando con un sorriso la bici che ho lasciato accanto all’ingresso… senza pensarci su, allora, lascio stare la cartina e gli chiedo: "scusi, non è che saprebbe dirmi come si arriva al fiume, da qui?".

"Oooooooh, signorina", mi fa illuminandosi tutto, "eh be’, glielo stavo per chiedere io se non le servissero indicazioni, ma certo, ma certo che lo so… guardi, esce dalle mura, qui a destra, e segue la strada che inizia qui di fronte fino al campanile del santuario. Poi trova le indicazioni per Rosa di San Vito, le segue, dovrà quindi a un certo punto girare a destra… saranno un paio di chilometri, poi non lasci più la strada e vedrà che si ritrova direttamente in acqua!".
Ride, lui, e rido anch’io. Non ho mai capito perché, ma qui a chiedere informazioni sempre così si finisce, con grandi sorrisi e tanti graziemille e buonaggiornata, roba che uno quasi quasi si sente un po’ meno forestiero, certe volte. Boh.
Comunque, seguo pari pari le indicazioni del tabaccaio e arrivo alla fine di Rosa di San Vito… che, enorme santuario a parte, è una frazioncina piccola piccola, poche case e una sola strada che a un certo punto sale un po’ e poi finisce: all’incrocio di due sentieri sterrati l’asfalto di interrompe e il cartello "riserva fluviale Tagliamento" mi avvisa che il Tagliamento è anche mio e che se mi comporto bene con lui, lui si comporterà bene con me.
Be’, mi sembra sensato. Solo che adesso non so quale dei due sentieri prendere. Sono lì che sto per prendere la cartina quando da dietro la curva di una delle due stradine sbucano due ragazzi in sella a dei cavalli di una bellezza sconcertante, due bai che quando mi passano accanto mi fanno sentire piccola piccola come un verme delle pere. Mi faccio coraggio, e chiedo ai ragazzi come si arriva all’argine del fiume.

[lo vedi che era da un’altra parte che volevi andare?]

Mi dicono di seguire la strada da cui sono venuti loro, e mi ci ritroverò dopo poco. Saluto, ringrazio e loro mi augurano una buona pedalata. Buona pedalata? Ma non ero arrivata? Non ci dovevo cadere, dentro il fiume, dopo Rosa di San Vito? Uhm.
Poi giro la curva, e capisco. Buona pedalata, e certo… se neanche si vede dove finisce, la strada!

Vabbuo’, ma ormai sono arrivata fin qui… che faccio, torno indietro?

[… acqua, Tagliamento, fiumetagliamento, acqua, acqua, fiume, Tagliamento…]

Uhm. No. Se torno me ne pento, già lo so. Andiamo, va, quanto mai potrà mai essere lunga in fin dei conti?

Eh. Boh. Non lo so, quanto è lunga, ma pedalo per una buona mezz’ora e passo campi, campi e ancora campi, poi due cave di ghiaia e una pista di volo per aeromodelli prima di arrivare ad un incrocio con un sentiero che si infila dentro un muro di alberi. Poiché mi sono scocciata di andare dritto e mi sa che il fiume è vicino, giro a destra e chissenefrega. La curva è stretta, e per un attimo sotto gli alberi si fa buio… poi passo un ponticello con il fondo in ferro e la stradina finisce, alzo gli occhi ed ecco, sì, adesso sì che sono arrivata.

Ci sono, alla fine. Era qui, era qui.

[Che cosa, era qui?]

 Niente, niente, era qui che c’era il fiume, ed è qui che sto io, adesso. Tutto qui, tutto qui.
Tutto.
Qui.

Non c’è anima viva, e all’improvviso sono felice come una bimba, mi tolgo le scarpe, faccio qualche passo nell’acqua gelida, poi torno, passeggio sul greto, su un tratto di fango trovo le tracce di qualcuno che era forse allegro come lo sono io adesso e il dio-fiume, dice lui, fa dispetti a chi ne vìola il greto e mi sfila una scarpa lasciandomi per qualche secondo in bilico su un piede solo, mentre tento di non scivolare e recuperarla dalla poltiglia in cui si è arenata. Alla fine mi calmo, mi siedo vicino all’acqua e ci resto. Sono sulla sponda destra, e alla mia sinistra, in lontananza, si vedono passare treni su un ponte della ferrovia che attraversa il fiume e su, in alto si sente passare ogni tanto un elicottero. Sono i Mangusta del 49° di di Casarsa…

[Well at least this time you were right, and you had the good sense to give up, yeah, when others there might of hung in, so just nobody touch me. I know what I’m doing. (…) There’s another one flying tonight, and I hope it don’t make it… I know what we’re doing…]

… e allora quello lì è il Ponte della Delizia. Uh, ho recuperato un punto di riferimento. So dove sono, adesso. Se so dove sono ci posso anche restare, allora. Resto, mi dico, ecco, mo’ mi sto proprio qua.

[seeeee, vabbuo’…]

Be’, almeno per un poco, visto che sono arrivata fin qui. Ciao elicottero!

[Hello helicopter!]

Mi distendo, e offro la schiena al massacro delle pietre del greto in cambio dell’ospitalità. Poi ne prendo qualcuna da portare a casa, ce ne sono di molto belle… una la porto a lei e le chiedo se me la dipinge… queste le porto a lui che per primo mi ha parlato del Tagliamento… questa che sembra una piccola luna piena me la tengo. Però… sono un po’ stanca. Sono stanca, ecco, gli dico al fiume.

Hai pedalato troppo, forse.

Ma non fuori… dentro, dico.

E sarà l’inverno appena passato, allora.

Può essere.

Gli inverni sono sempre lunghi, e freddi, e qualche volta difficili. E voi siete un po’ così.

Già.

Senti, ma sei venuta fin qui solo per dire che sei stanca?

Be’… sì.

E allora?

No, è che devo prendere una decisione. Solo che non ci riesco, e mi sa che è proprio perché sono troppo stanca.

Ah, ho capito. Va be’, fatti un bagno, allora.

Eh?

Fatti un bagno. Lasciala qua.

La stanchezza, non la decisione.

Ah.

Eh. Però resta qua vicino, ché più in là l’acqua è troppo fredda e la corrente troppo forte.

… ma tu sei sicuro che è una buona idea?

Non c’ho la prova scritta, se è questo che vuoi sapere. Però fate così da millenni, voi.

Dici che quattro ore bastano per digerire una pasta e ceci?

Ti vuoi ritrovare a mare, di’ la verità…

Vabbuo’, ho capito.

Meno male.

Grazie.

Prego.

Oh, ma te l’hanno mai detto che sei antipatico?

E’ un complimento, vero?

Va be’, allora io…

Accomodati.

Grazie.

E prego. Poi però levati di torno. Parli troppo, tu. Proprio qua che non ce n’è bisogno.

[OSI, Hello helicopter!, 2003]

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