La terza volta che la incontro non è che un attimo. Ed è una cosa che non ho mai visto prima in tutta la mia vita.
Succede in un primo maggio inondato di un sole che finalmente scotta, scotta, e di nuovo a Sacile. Dove lo stesso sole sembra aver scottato e messo in fuga ogni forma di vita animale. Come intrusi, sudati e troppo vivi arriviamo in un paese che ha il respiro dilatato – se respira – del ritmo delle prime cicale della stagione, che però già sembrano stanche per come friniscono lente, lente, lente…
C’è un piccolo parco verde, in paese, incastrato in una curva della Livenza, che non avevamo mai visto prima. Ci finiamo per caso, pedalando piano e in silenzio, ché la nostra voce e il ticchettìo della catena sulle corone suonano improvvisamente come un fracasso, proprio così, come f e r e c e a e s e o troppo forti, fuori posto, quasi maleducati, nemmeno si stia correndo il rischio di svegliare qualcuno, qualcosa, ma che ne so.
Zitti zitti scivoliamo sulle strade, allora, prendendo vicoli a caso, finché non passiamo un ponte dopo il quale si apre un lago verde, di erbaacquasalici, tutto mischiato, tutto mischiato ché non si capisce dove finisca una cosa e inizi l’altra – e perché poi dovrebbero essere separate, in fin dei conti.
Poi, è un attimo. Faccio un passo verso la riva, dove lo spazio è trafitto da lance di luce che fendono le chiome dei salici, e vedo uno, due, poi dieci, poi una nebulosa di minuscoli batuffoli bianchi che danzano leggeri sull’acqua. Alzo lo sguardo – ché prima mi guardavo i piedi per non incappare in qualche punto fangoso – e tutta l’aria ne è piena, tutta, e qui davanti non scorre più un fiume di acqua verde, bensì di piccoli pollini che vengono giù fitti come neve, come grandine però leggera, come ovatta o che ne so, ma no, ma no, vengono giù come pollini e basta, come solo i pollini di decine e decine di salici che decidono di mettersi a piangere tutti insieme nello stesso momento possono venir giù e basta, e basta.
E cadono, poi, non è che sono così leggeri da restare sospesi per molto, sull’acqua e nell’aria si appoggiano e poi scivolano, e vanno verso il basso, bianchi ma neanche tanto, e ad ondate vanno, e calano, si posano, e fanno il fiume opaco, una striscia opaca in mezzo ad un verde che scintilla di sole in un trionfo di gravità.
E, di nuovo, quella sensazione. Che fa girare la testa, e che spaventa.
Non mi basterebbe tutto il tempo del mondo, mi ascolto dire ancora una volta ad alta voce. No, non mi basterebbe.
‘aspita, che monotona.
-continua-
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quando, all’improvviso, il lago vibrò e una mano misteriosa sorse dalle acque, offrendo una chiave da 13.
Lago? Uhm.
Chiave da 13? Uhm.
E’ una bici, non una Transalp. Bisognerà dirlo a alla ‘gnora Nimue (ma da quando ha aperto un ferramenta?).