E’ sulla strada di questa soferénsa prescritta dal sapiente biciclettaro con orecchio da musico a quest’ignaro ciclo strìaco da poco acquistato di seconda mano da una signora in dolce attesa che prevede di non farne più uso, che vado incontro alla primavera di quest’anno, che poi è la mia prima primavera friulana in assoluto. "Aprile non è un mese per tutte le stagioni", diceva del resto qualcuno, bisognerà pur prenderne atto in qualche modo. L’indicativo presente andrà bene, suppongo… purché sia a pedali, però. Su due ruote non sarebbe la stessa cosa. No… i pedali, ci vogliono.
Il primo giorno che vado a sbatterle addosso con la leggiadrìa che è propria della mia allure da pompa di benzina è un giovedì della seconda metà di aprile. Caldo. Molto caldo. Decisamente troppo, per me che stamattina ho deciso cosa indossare per uscire senza di aver messo nemmeno un dito fuori dalla finestra: pantaloni lunghi (neri), t-shirt (arancione) sepolta sotto una pesante felpa (nera) con il cappuccio. E’ che fino a ieri, pioggia e vento. Oggi c’è il sole, ma l’aria sarà forse ancora fresca.
Seee. Ma quando mai.
"Primo giorno di sole? Muori, deficiente d’una ciclista improvvisata, così impari, la prossima volta, ad imprecare quando ti mando giù l’acqua che ti serve per sopravvivere". Oh, ma ‘sto cielo stamattina si esprime con lo stesso sarcasmo di qualcuno che conosco. Ma comunque.
Parto, e mi avvio in direzione dell’IperStanda di Porcìa (quella del barattolo di Nutella di UnaBomber, per intenderci), nei pressi della quale il biciclettaro mi ha segnalato l’inizio di una pista ciclabile che arriva fino ad Aviano, passando per Roveredo in Piano e per lunghi tratti di aperta campagna. "No te trovi nissuni e te provi la bici per ben, che là no ghe xe casino". Agli ordini.
Per arrivarci, però, devo attraversare la città da sud a nord, e poiché preferisco evitare i tratti molto trafficati, decido di passare per la zona ovest, che conosco ancora poco, prendendo una strada che ho percorso altre volte, anche se in auto e in senso contrario. Per raggiungere e poi attraversare la Pontebbana, allora, passo la zona nei dintorni del lago Burida: sono le due e in giro non c’è anima viva, zanzare e moscerini a parte… e meno male, perché con questa temperatura ho preso in viso un colorito che fa pendant con l’arancione-evidenziatore della maglietta nascosta sotto la felpa e insomma, non è che sia propriamente un bel vedere. Del resto continuo a dirmi che fra poco uscirò dal centro abitato, e che nei campi il vento mi raffredderà un poco…
"Seeeee", sento un vocina dire da qualche parte, non so se dentro o fuori, "ma quando mai. Devo ripertertelo? Guarda, quasi quasi mi imbarazzi". Umpf.
Passata l’IperStanda, però, qualcosa in effetti cambia. Non si alza un filo di vento – nun sia maje! – ma appena le ultime propaggini della zona industriale di Borgonuovo finiscono alle mie spalle è un mondo di aria, terra, sole e silenzio quello che mi si apre sotto gli occhi. E poi… quell’odore… umido… grasso… tiepido… tic, fa qualcosa nello stomaco. Tic, fa qualcosa, nella gola. Tic, fa qualcosa dietro la nuca. Tic. Tic. Tic, tic, tic.
Scintille. E’ ‘st’odore che fa scintille sotto la pelle, troppo vicino alla valvola di sfogo delle riserve della Memoria del naso e delle dita. Mi fermo ai margini di un campo, prima di entrare a Roveredo, cercando di ignorare l’incombente pericolo. Mi raffreddo, tolgo la felpa, faccio un risvolto al pantalone fin sotto il ginocchio. Sembro una lavandaia, adesso, ma almeno il caldo mi opprime un po’ meno. Da qualche parte, lontano, si lamenta una tortora e un trattore ronza, al lavoro. Anche qui non passa, non si vede e non si sente anima viva. Mi sdraio sull’erba ad ascoltare, in quello che ho intorno, qualcosa che non ricordo più quand’è stata l’ultima volta che. E il sole brucia, sulla pelle delle braccia e delle ginocchia che vedono il sole per la prima volta in sei mesi, e ha un profumo che conosco anche se, anche se… anchese… anchesé…
Riparto, dopo un po’, quando la calotta cranica mi è diventata calda come un ferro da stiro, e mi fermo a Roveredo a chiedere un bicchier d’acqua in un bar, che poi mi fanno pagare. Ci resto male, torno in sella e penso di arrivare fino ad Aviano a guardare i decolli delle missioni pomeridiane, ma dalla cima del Col Grande si fanno strada veloci verso la pianura grossi nuvoloni che minacciano tempesta.
Poiché l’esperienza mi insegna che dai temporali di maestrale è meglio stare alla larga, potendo, decido di tornare verso casa… mentre in men che non si dica il vento si alza rabbioso e un muro grigio inghiotte il sole e riempie la campagna di un’aria pesante e carica di elettricità. Volo via verso casa che il temporale è appena arrivato ai piedi delle montagne… questa volta sono salva, anche se quell’odore non ha avuto il tempo di, anche se non sono riuscita a ricordare quando è stato che.
Le rondini mi portano via i pensieri ad ogni incertezza, ad ogni pausa, ad ogni punto di sospensione che mi lascio scappare. Non riesco (la bici ha detto che poi) più a finirne (quanto mi) nemmeno (già so’ dieci) uno (e vavatténne!).
Ma che… eppure non mi pare.
Ma allora è primavera, forse.
E’ aprile?
E’ aprile, sì. Anche se.
Tic, tic. Tic-tic-tic.
‘ccidenti.
– continua –
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la bici s’è messa a cantare pioggia d’aprile, allora.
No. Non mi farebbe mai una cosa simile. Mica come lei.