Quando qualcosa si conclude e un nuovo ciclo sta per inziare, arriva un momento in cui non si è dentro e non si è fuori, e non è prima né dopo, quello che si è concluso non ci ha ancora abbandonati e quel che verrà ancora non si vede. La soglia, la luna nuova, il nuovo giorno che comincia nell’ora più buia, quando nel sonno si scioglie la stanchezza di quello appena trascorso, rinnovando le energie in vista del prossimo. Succede tutto, in quel momento, ché stasi e movimento non possono essere distinti l’una dall’altro, e insieme accadono, succedono senza succedersi. Sono.
Fosse per me, non parlerei d’altro per tutta la vita. Solo di quel momento, anche se non so come si fa, anche se una vita non mi basterebbe, come non mi basterebbe tutto il tempo del mondo per vedere tutto quello che c’è da vedere su questa terra. E nonostante questo, bisogna arrendersi allo squilibrio delle proporzioni. Fosse per me non parlerei d’altro, se non dell’acqua e dei suoi movimenti segreti, e poi di tempo e rivolgimenti. E del momento del nesso, della soglia, del mentre e del ventre, del varco, della porta e dei suoi intorni, destro e sinistro – e delle ginestre, le piante che nella flora delle mie parti ne sono il corrispettivo naturale. Ci sono momenti in cui non mi pare esista altro di cui valga la pena parlare. Come questa sera, per esempio. Ma il raffreddore dice che non è il caso. Non adesso, almeno. Resto allora sulla soglia, con il naso bloccato e gli occhi che sembrano la cascata del Torrione della reggia di Caserta, guardando la serata scivolare, tipicamente quanto inesorabilmente, verso lo status un po’ così.
Le serate sulla soglia, le serate un po’ così, almeno per quanto mi riguarda, silenziose e distratte, sono insieme frenetiche e languide, ché insieme mi sono care e detestabili. Oggi è finito, domani non arriva e io non riesco a decidere se fare questo o quello. Eppure qualcosa ribolle, non so cos’è, ma.
Così: ma e punto. Ma.
Andrebbe bene anche: e.
Una congiunzione e un punto, forse, potrebbero bastare per dipingere una serata un po’ così.
E allora non si fa niente, e si resta in ascolto.
Spengo il pc, faccio una doccia, vado in cucina. Metto sul fuoco il bollitore con un po’ d’acqua, mi siedo sul tavolo. La cucina è la stanza più grande, in questa casa. In fondo, nell’angolo accanto alla porta finestra, c’è il ficus benjamin zingaro che d’estate sta sul balcone e d’inverno mia madre sposta in casa per evitare che le gelate notturne gli brucino le foglie. E’ una pianta rigogliosa dalle fitte fronde verde smeraldo, in salute, alta quasi due metri e con un bel tronchetto di legno chiaro chiaro… ha tanti anni, ormai, fu il primo regalo che feci a mia madre mettendo da parte qualche spicciolo, da bambina. Avevo otto o nove anni, e quando la comprai era un rametto che spuntava dalla terra, tutto fiero delle sue dieci foglioline. Compreso il suo vaso, allora era alto quanto me. In quasi vent’anni è diventato il guardiano della cucina, e di questa casa.
Mi piace guardarlo, nelle sere un po’ così che poi diventano notti, quando tutte le voci del giorno si sono spente da un po’ e il solo rumore che si sente è il soffio del metano che brucia sotto il piccolo bollitore, finché i pensieri si spengono del tutto, diventano verdi e iniziano a metter radici. Allora penso che fra poco, sì, sentirò anche il rumore che fa mentre esiste, mentre vive… ma poi ecco, da qualche parte nella sua chioma si stacca una foglia secca, nel silenzio notturno (che poi è il sommesso ronzare del frigorifero) fa un rumore secco che rompe l’incantesimo dell’attesa con un breve crepitio. Io non ho sentito proprio niente, i pensieri tornano veloci ai loro colori consueti e il ficus torna alla sua esistenza verde e forte – al di fuori delle frequenze umane – che spande silenzio e calma. Così mi diceva il nonno, quando ero piccola: negli alberi e le piante il tempo si sedimenta, e diventa una forza che non vuole modificare il mondo né fare del male. Negli uomini, invece, il tempo brucia e così li fa luminosi, inquieti e diversi da quello che erano un attimo prima, in ogni momento. Chissà cosa aveva in testa, quando rispondeva così alle domande che gli facevo sulle piante che coltivava nel suo orto. Chissà.
L’acqua bolle. Mi sorprendo, d’improvviso, a sentirmi vecchia. E non è per i vent’anni del guardiano della cucina. Meglio ancora: invecchiata, più che vecchia. E’ normale sentirsi così alla fine di un ciclo, credo. Invecchiata, e un po’ stanca.
Guardo la tazza fumante sul tavolo. Intorno a me ci sono tazzine da caffè e posate tutte diverse le une dalle altre, testimoni di decenni diversi, e l’odore di quello che s’è mangiato a cena. Ci sono anche pensieri, che corrono all’amico che domani ha l’esame, a quanto importante sia stato questo quattordici febbraio per le persone che abitano qui, al profumo di soddisfazione che di questa giornata ancora persiste, attaccato alle pareti. E c’è anche quell’altro, di pensiero, che da anni non mi abbandona mai.
Nel cuore di una notte un po’ così, sulla soglia tra un questo che sta per andarsene e un quello che sta per arrivare ci si sente vecchi – fin sulla lingua, ma ancor di più fin dentro l’immaginazione.
Dal ficus si stacca un’altra foglia. Viene da lontano, lui, da luoghi caldi in cui non c’è necessità di perderle tutte quando arriva una data stagione. Il suo ricambio è quindi costante, al ritmo di poche alla volta si rinnova per tutto l’anno. Stanno di nuovo per farsi verdi, i neuroni, quando alle spalle mi distrae un fruscìo di stoffa. Deve essersi accorta della luce accesa.
– "Ma che ore sono… tutto a posto?"
– "Mh-mh. Non riuscivo a dormire. Tisana"
– "Sì, ma cerca di non far mattina"
– "No no, tra poco vado a letto"
Resta lì, dietro di me che sto seduta, forse si stropiccia gli occhi, che ne so, poi sento una carezza, lieve, sulla testa.
– "Uh, ma quanti capelli bianchi che hai messo…"
– "Mh-mh… visto?"
– "Eh. Sempre con la coda o la testa fasciata, non me ne ero resa conto. Sono molti di più dall’anno scorso…"
– "E sì…"
Sospira, malinconica: di questa storia dei capelli bianchi le dispiace. E’ un marchio della sua famiglia, e quindi anche della nostra. Se non li tingesse, i suoi sarebbero quasi completamente d’argento, e non ha passato da molto i cinquanta. A lei sono spuntati a venticinque anni, io a diciassette anni avevo già la mia prima ciocca. Lei se ne sente colpevole, e io non sono mai riuscita a ficcarle in testa che non mi danno alcun pensiero, anzi. Mi piacciono, in qualche modo. Perché mi piace che qualcosa di lei navighi nel mio sangue e perché sono un segno che mi risparmia la fatica di dire qualcosa che sarebbe troppo complicato spiegare a parole, e che invece sta lì, si vede e basta, e io non ho bisogno di dire niente. Ci sono giorni in cui questi precoci capelli bianchi sono una benedizione, altroché, roba che mi viene quasi da ringraziarla per avermeli passati. E lo faccio, in effetti, tutte le volte che qualche amico mi dice – proprio come ha appena fatto lei – "uh, ma quanti capelli bianchi che hai messo", e io sorridendo rispondo: "eh… è mia madre".
Non ho bisogno di girarmi per sapere che è ancora lì, anche lei sulla soglia. Mi raggiunge, di tanto in tanto, nelle notti un po’ così in cui il mio passo non è abbastanza leggero o il suo sonno non abbastanza pesante. Tiro indietro la testa finché a sostenerla non incontro il tepore del suo ventre, che è quello che mi ha messo al mondo.
Il ventre. Il mentre. La soglia. E’ tutto qui che succede. Qui, sulla soglia. Ho sonno e non riesco a dormire, questa giornata non si è ancora conclusa ma non è ancora domani.
Qui succede tutto, qui si gioca tutto, e proprio per questo è un posto che può diventare pericoloso, se ci si attarda troppo. Lei, che lo sa, quando se ne accorge mi raggiunge. Per non lasciarmi sola. Per darmi una spintarella. Ogni volta ci prova, tenta di portarmi via.
– "La tisana è finita. Andiamo a dormire, che dici?"
– "Mh-mh"
Tre passi, e sono in camera mia. Con uno sbadiglio ci salutiamo.
– " ‘notte"
– " ‘notte, ma’ ".
Non me li tingerò mai, i capelli.
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devi essere splendida, in una notte di luna piena. magari in un bosco, in preda al panico.
o illuminata dalla stroboscopica.