Da quando mi hanno regalato questo cappello nero con la visiera, di lana, tanto caldo, camminando mi capita di tenere lo sguardo incollato al suolo più spesso del solito. Quando fa molto freddo devo calcarmelo bene in testa fin sugli occhi, e allora…
… allora ieri pomeriggio, uscendo di casa, incrocio una vecchietta che inveisce aspramente contro i passanti sul suo stesso marciapiede, urlando loro di comportarsi da persone più civili, perché "ma insomma, non è possibile che in giro ci sia tutta questa immondiziaaaaa!". Ha ai piedi spesse calze marroni, e un paio di stivaletti bassi dello stesso colore, di quelli con il pelo di fuori.
Sto andando in centro e ho con me la ruota anteriore della bici, di cui devo far controllare la camera d’aria che ho trovato sgonfia qualche giorno fa. La signora, vedendomi passare, mi ha urla: "e là, là, chissà dove ti la ga presa, quela ruota lì! Eh?". L’istinto mi impedisce di voltarmi. La vecchina è certamente innocua, ma io vengo da un luogo dove non ci si volta mai, per nessuna ragione, in qualsiasi modo si venga apostrofati, soprattutto in strada. Assai scortese, da parte mia. Un giorno imparerò almeno a sorridere, e che diamine.
Proseguendo, noto che c’è un breve tratto della pista pedonale/ciclabile che porta in centro che sembra essere disseminato di scontrini – tra l’altro, forse l’unica immondizia cui la simpatica e vetusta urlatrice potesse riferirsi – e, in prossimità di una fermata bus, di biglietti dell’ATVO… tra i quali – giuro! – spicca anche il bianco-azzurro di un Unico Napoli. E’ un mese che non ne vedo uno. Un brivido mi parte fulmineo, dal coccige all’atlante. Brrr.
Quando arrivo al ponte la ruota mi sfugge di mano, e nel chinarmi a raccoglierla mi accorgo del reticolato di piccoli cristalli di ghiaccio che si sta creando in questi giorni di freddo intenso tra le assi della parte centrale, che sovrasta le acque grigie e sempre gremite di presenze del fiume.
All’uscita dal negozio-officina del medico ciclista, poi, tra i suoni del consueto mormorio urbano mi giunge all’orecchio la voce di un violino, che risuona sotto il porticato del corso nonostante l’aria umida e immobile di una giornata dal cielo coperto in direzione di tutti e quattro i punti cardinali: in questi ultimi giorni è sempre qui, mattina e pomeriggio, ad orari di cui non ho ancora compreso la cadenza, e oggi è anche in compagnia di una sfiorita ma classicissima sei corde. Prendo allora un caffè al bar di fronte, e mi azzardo a chiedere al barista se posso accomodarmi fuori a berlo. "Come no, prego, faccia pure", mi risponde forse disorientato dalla domanda un po’ bizzarra, probabilmente i tavolini esterni non devono essere molto richiesti in giornate fredde come questa.
Mi siedo accanto ad una colonna del porticato, il caffè si raffredda in un attimo, resto giusto per il tempo di una canzone. Conto passare sessantotto piedi.
Quando rientro, qualcosa che fluttua nei fasci di luce proiettati dai fari delle auto attira la mia attenzione. Ho ancora in testa, incastrato sotto il cappello, il carezzevole canto del violino di poco fa. Ed ecco, sta nevicando.
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