Jamais déjà vu

Due novembre duemilacinque, sei e mezzo del mattino.

Dopodomani vado via.
Mi prendo una mattinata di pausa, per il bene delle mie gambe. Che in certi casi va di pari passo con la sanità mentale, si direbbe.

[I looked to the sky…]

Tra l’altro, il tempo questa mattina è sereno per la prima volta da quando sono arrivata qui quindici giorni fa… se non ne approfitto, temo che me ne pentirò.

[… Saw my body die.
Gotta reappear up there…]

Alle otto il mondo è inondato di cielo e di sole, un sole che mi scalda la schiena mentre faccio il pieno al distributore fai-da-te. C’è un certo movimento in giro, oggi. Nei cimiteri, pare, e nella testa di chi al camposanto non ha bisogno di andare perché tanto i suoi morti se li porta dentro, e non si limita a far loro visita una sola volta all’anno.

[... It’s where I want to be
In the universe city…]

Alle nove e un quarto sono sull’autostrada, in direzione di Trieste.
Perché io continui ad andarci, ancora, ancora e ancora, non sono in grado di dirlo con esattezza. Con il tempo ho potuto soltanto capire che ormai non è più questione solo di Voci, ma di Presenze, semmai. Più passa il tempo, e più il nome di questa città si avvicina a diventare – nel mio dizionario interiore – sinonimo di intimità.
Con chi? Con cosa? Non lo so.
Non somiglia in alcun modo a casa mia, né a nessuno dei luoghi che ho conosciuto nella mia vita.
Non depone a suo favore il fatto che, ogni volta che vi metto piede, mi capiti di incontrare almeno un essere umano che parli la mia stessa lingua. Anzi. Non ricordo più chi scrisse che Trieste è la patria di tutti quelli che non si trovano a proprio agio nella loro lingua. Nonostante la stizza nei confronti di una parte di coloro che appartengono alla mia ,  mi pare sia questo il mio caso.

Ad ogni modo, nel tempo essa stessa è finita con il diventare una Presenza.
Sta là. Io so che sta dove sta e, come tutte le Presenze, di tanto in tanto chiama. Almeno, io la sento chiamare. Temo che un giorno o l’altro dovrò fare i conti, con questa cosa delle Voci.
Intanto, però, scruto. Studio. E mentre cerco di capire il perché di alcune cose, ecco che immancabilmente me ne vengono incontro delle altre. Così mi perdo. Ci rinuncio, a capire, così d’improvviso mi svuoto e divento allegra.

[…I’ve found, I’ve found… my own college.
I’ve found, I’ve found… a way to resolve this.]

Vado, allora. Per l’ennesima volta.
Che altro posso fare?

[I’m not inside you…]

Alle nove e quarantacinque sono all’area di servizio di Duino Sud, poco prima di lasciare l’A4. All’ingresso delle toilettes, seduto ad uno sgangherato banchetto di legno marcio, c’è un vecchietto che si occupa della pulizia delle stesse, che ascolta estasiato la voce della Callas che canta la famosa aria della "Carmen" tenendo la radiolina attaccata all’orecchio destro, ad volume tale che la spettacolare voce arriva, nemmeno fosse filodiffusa, fin dentro le cabine. Ha il volto pieno di grinze (il tizio, non la Callas), sorride, sospira: "Aaah, Maria…" con gli occhi persi da qualche parte nella sua memoria… nemmeno mi vede, quando ripasso per uscire, però mi saluta educatamente lo stesso.
Poco dopo sono in città, dove trovo il cielo ammantato dello stesso grigio che fino a ieri era stato il tetto di tutto il Friuli-Venezia Giulia. Il Maestrale che stanotte ha restituito al cielo di Pordenone un po’ di blu qui non è ancora arrivato, complice forse la barriera del Carso. C’è afa, e una bava di vento che non convince nemmeno un po’. Abbandono l’auto sotto la torre dell’Acquario, e mi avvio a piedi nell’aria umida verso il Molo Audace.

[… You’re all around me.]

Mi dirigo verso il punto dove di solito mi piace stare seduta, lo trovo inondato di acqua salsa e allora ripiego, visto che è libera, su una panchina che mi piace più delle altre.
C’è odore di mare e di esseri umani, stamattina. Mare ed esseri umani.
Dev’essere per via del vento, debole come qui non l’ho mai trovato prima. Le altre volte c’era solo un asciutto odore di sale, frammisto al massimo nei giorni di Bora a quello del legno vivo dei boschi di montagna. Stamattina, invece, c’è aria di mare ed esseri umani.

C’è un bambino che il suo papà ha fatto sedere sulla grande bitta di bronzo per fargli leggere e spiegargli i nomi dei venti, e quando il bimbo si meraviglia fa un "ah!" che non si distingue dal verso dei gabbiani. C’è un signore, evidentemente anziano ma ancora sorprendentemente crisocrinito, che vedo passare quattro volte: a guardarlo, ci si rende conto che sta facendo da almeno mezz’ora il giro del molo, camminando sul bordo. C’è poi un signore di mezz’età che legge il giornale in piedi, proprio davanti a me. C’è infine una pilotina da lavoro che entra nel mio campo visivo da sinistra, si infila in fretta nel bacino San Giorgio, fa manovra, gira la prua ed esce in fretta dal porto, lanciata a tutta velocità. Il signore con il giornale mi vede seguirla con lo sguardo, abbassa il suo quotidiano e mi fa:
– "Lo sa perché va così veloce?".
Faccio cenno di no con la testa.
– "Perché è una trentina d’anni che, invece di una sola elica o due eliche una accanto all’altra, quelle barche lì montano le eliche controrotanti, cioè, due o tre eliche che girano sulla stessa colonna di flusso a sensi alterni… così, capisce, rendono molto di più, perché avvitano e svitano l’acqua sullo stesso asse e la potenza aumenta enormemente. Guardi, infatti, guardi come corre…".
– "Mh. E’ vero, in effetti…", rispondo con un sorriso, sperando che gli spasmi nervosi degli angoli della bocca non si notino troppo.
Poi chiude il giornale, scruta a lungo l’orizzonte, finché non gira i tacchi e se va. Come la pilotina di qualche minuto fa.

Mi guardo ancora un po’ intorno, e mi accorgo delle persone in tenuta da lavoro che vengono qui, restano una decina di minuti a guardare il mare e poi vanno via. Sembrano proprio tante, senza contare i ragazzi che leggono, quelli che disegnano, quelli che sgranocchiano qualcosa… mare, ed esseri umani che si muovono con cadenza di marea. Vanno e vengono in continuazione in piccole, appena percettibili ondate, sicché viene da chiedersi cosa ci sia nella testa di ognuno di loro, quali pensieri vengano a rendere o a farsi restituire dal mare in questo gesto che almeno a prima vista sa di buona, amata abitudine.

Mare ed esseri umani, stamattina. Mare ed esseri umani.

[(…) I waited all this time above you.]

"Non lo faresti anche tu, in effetti, se avessi un posto così a due passi da casa?", mi faranno riflettere qualche tempo dopo. Sì. Devo dirlo: sì. Eccome, se lo farei.
E temo che ci sia anche qualcosa di più. Dovrò prima o poi portare alla luce il segreto desiderio nei confronti di questo posto che mi riposa nelle viscere. Ma non è questo il momento, e appena lo scorgo venirmi incontro dall’orizzonte (me lo ritrovo davanti ogni volta che torno qui) batto in ritirata senza ritegno, con la scusa di dover tornare all’auto per lasciare qualcosa di troppo pesante che ho nella borsa e di cui mi sono improvvisamente accorta di non aver bisogno, per oggi.

[(…) I looked to the ground
Was pleased with what I found…]

Visto che però non c’è bisogno che la ritirata sia precipitosa, faccio il giro per Piazza Unità, che sotto questo brumoso cielo ha perso il consueto nitore prendendo sfumature che non le avevo mai visto prima, come se i Giganti del Carso le avessero soffiato addosso una manciata di cenere. Quando la attraverso è così, con gli angoli scuri e poca gente, soprattutto anziani. Mentre mi fermo un attimo a fare una foto, c’è un distinto uomo d’affari foresto che ferma un nonno con il suo nipotino in braccio chiedendogli consiglio su dove poter andare a mangiare pesce in città, "ma un posto che sia buono-buono, ne’…". Il buon triestino allora si scusa, "perché sa, le saprei indicare solo i posti dove andavo quand’ero giovane, adesso il pesce me lo pesco da me una settimana sì e una no". E comunque, dice, "a Trieste i nomi dei posti cambiano, per cui forse non posso esserle d’aiuto in ogni caso". L’uomo d’affari, microfonino auricolare cementato al relativo padiglione, saluta e volta le spalle al nonno che prosegue la sua passeggiata con il nipotino, e – nemmeno a bassa voce – dice al dispositivo elettronico in forma di scarafaggio che gli pende sotto il mento qualche parola di stizza, poi, quando fa "ma non lo so, non lo so, aspetta che chiedo a qualcun altro, proprio un rincoglionito dovevo beccare…", per la miseria, mi prende la voglia di prenderlo a schiaffi con il tacco delle sue belle scarpe nere fino a scollargli il setto nasale dalla faccia. Proseguo indispettita per via San Sebastiano, Piazza Cavana e Piazza Hortis, poi giro di corsa a destra e mi ritrovo sulla Riva Sauro, dove ho lasciato la macchina. Dopo aver fatto quello che devo fare, faccio il giro per Piazza Venezia, passo davanti all’edicola dove quella volta io e lui comprammo i biglietti dell’autobus, piego a sinistra e ritorno a piazza Hortis… non essendo più indispettita non ho più fretta, adesso, e ho tutto il tempo di salutare il capoccione di bronzo di Svevo e gli splendidi ippocastani che stanno inondando la piazza di foglie marroni, oggi ridotte in verità ad una poltiglia marrone a causa della pioggia che evidentemente è caduta questa notte…
… proseguo, e ripassando a piazza Cavana faccio una sosta alla panetteria all’angolo sulla sinistra: visto che resterò qui fino a ora di pranzo tanto vale che mi attrezzi. Dentro c’è un profumo che fa bene al cuore, e le persone parlano una lingua che non conosco ma che mi piace. Dialetto, lo chiamano, ma io so che questa parola qui non ha lo stesso significato che a casa mia… ma questa è un’altra storia.
Per il momento, questa è la storia dei due panini alle olive che prendo facendomi guidare dai gusti delle persone che mi precedono nella fila al bancone: voglio assaggiare qualcosa di buono che si fa qui ma, non sapendo molto della gastronomia locale, guardo quello che prendono le signore prima di me, facendone passare avanti un paio per sbirciare un po’ più a lungo. Nel giro di quattro-cinque comande, mi accorgo che quasi tutti, alla fine della spesa di pane ordinario da portare a casa, fanno sempre aggiungere dai commessi uno o due panini alle olive. Una studentessa addirittura prende solo quelli. Mi fido, allora, e ne prendo due anch’io, ché sembrano l’articolo più richiesto, in questo momento, anche perché sono stati appena sfornati… rischio il pranzo, è vero, ma non fa niente.
Metto al sicuro fagotto tiepido dei panini nella borsa  e continuo la passeggiata, così, camminando distrattamente… faccio un giro un po’ stupido, oggi, che però non ho fatto altre volte giacché, a Trieste, nell’andar sempre per stradine più piccole e meno battute ho trascurato quelle grandi… per cui, ecco, a Corso Italia non ci ero mai passata. E nemmeno davanti al Teatro Romano, a volerla dire proprio tutta.
Ed è proprio bello, tra l’altro, il Teatro, così vecchio, così scavato in mezzo a certi palazzoni anni Settanta che fa quasi tristezza. Mentre sono lì che faccio prove di acustica, una cornacchia arriva in volo, planando sulle rovine; porta qualcosa tra le zampe, forse un grosso foglio di carta umida, a prima vista da lontano sembra un grande fazzoletto che lascia cadere sulle pietre del teatro senza tornare a raccoglierlo. Subito dopo, da chissà dove, compare un gabbiano che ci si avventa sopra, lo fa a brandelli a furia di beccate, poi perde improvvisamente l’iniziale interesse e vola via lanciando un "ah-ah!" che così da vicino fa quasi male ai timpani. Mi torna in mente il bimbo sul Molo Audace. "Ah!".

[…Gotta reappear up there…]

Proseguo sul Corso Italia finché non arrivo a piazza Goldoni, recentemente devastata da un’opera di modernizzazione a dir poco senza senso. Verso calde lacrime davanti a quella specie di torre per CD che ora si alza verso il cielo dal centro della piazza e fuggo verso la galleria e la scalinata che mena fino al Castello di San Giusto, che non so perché in quel momento mi sembra qualcosa di simile ad una via verso la Libertà…

[… It’s where I’ll always be
In the universe city.]

… miseria… certo è catartica, la scala Silvano Buffa… ma alla fine ci arrivo, a San Giusto. Non senza un certo timore, però, perché è fin dal primo incontro con Trieste che tento di venire a vedere questo posto, ed è da sempre che, alla fine, non ci riesco.
Qualcuno le ha chiamate coincidenze. Mah. Io ho l’impressione che al di là dei singoli episodi questa collina mi cacci via a calci in culo, certe volte, sebbene questo significhi peccare decisamente di presunzione.
Be’, fatto sta che sono così felice di essere qui che penso di onorare il momento tirando fuori il fagottino della panetteria di Via Cavana, ché ormai sono in giro da sei ore e ho lo stomaco talmente disperato da avergli già un paio di volte dovuto intimare di metter giù le mani dal fegato. Non faccio in tempo ad aprire il sacchetto che una fragranza di pane e olive (sì, dico proprio pane e olive) si fa strada, fulminea, fin dentro le sinapsi… e capisco, sì, che ho fatto bene a fidarmi delle signore alla panetteria. Al primo morso, un picosecondo dopo, sono letteralmente commossa, non c’è nessuno intorno e allora mi scappa, proprio ad alta voce: mammamiaaaaachebbuono!

[(…) I’m gone, I’m gone… I’ve finally solved this.]

Ripreso il contegno, un pezzettino alla volta – parti piccole, perché non finisca subito – io e il mio panino di polpa di olive proseguiamo il giro intorno al castello, dove incontro i gatti con le loro casette numerate nascoste dietro i muretti, un dinosauro, una siepe ornata di gioielli, e un albero dalla pettinatura un po’ bizzarra. Le mura a sud sono splendide, ricoperte di rampicanti che lo avvolgono di verde e di rosso… qui fa meno caldo che sulle rive, il cielo si è fatto bianco e non si è alzato nemmeno un po’ di vento… resterà così, forse, per tutta la giornata. Facendo il giro della grande rocca, trovo una fontana pubblica dalla quale vorrei bere, ma la pressione del getto è talmente forte che prima di riuscirci arrivo a bagnarmi quasi totalmente, da capo a piedi. "Le scarpe almeno si sono salvate, va’…", penso ad alta voce senza rendermene conto. "Sì, ma guarda… per poco", dice alle mie spalle una voce che, si sente, trattiene a stento una risata. Sono due, visibilmente divertiti; aria da studenti (ma quanti studenti avrà, questa città?). Questa mi ricorda quella del semaforo… però, invece di vergognarmi, scappa da ridere a me per prima. Ridono anche loro. Ci si saluta, infine, con l’augurio di un buon proseguimento di giornata.

[I’m not inside you…
…You’re all around me.]

Non c’è quasi più nessuno, ora, per strada. Sarà sì e no mezzogiorno e mezzo da poco passato, e quando io e il panino arriviamo alle rovine della basilica romana troviamo soltanto una distesa di piccoli felini che godono del tepore della giornata ognuno a proprio modo, chi disteso nel prato, chi in bilico su un cestino delle immondizie, chi ai piedi di una siepe. Alcuni hanno l’aria stanca e malandata, ma accettano volentieri un boccone del mio panino, segno del fatto che le gattare per fortuna non li hanno inutilmente viziati.
A parte loro e qualche piccione, però, qui non trovo altra forma di vita… per una buona mezz’ora non passa nessuno, e la spianata della basilica si riempie lentamente di quel silenzio che soltanto negli interstizi deserti delle città si può di tanto in tanto trovare.
E lo vedo. Ancora una volta, lo vedo per la prima volta.

Lo dirà bene lui (sì, sempre lui), una settimana dopo, al telefono: "è strana, quella città. Io ci sono stato una sola volta, eppure ogni tanto mi manca. Ci vai una sola volta, ti manca e non sai nemmeno perché".

Ecco, ecco di cosa si tratta.
Il cielo bianco allaga le rovine di una luce abbacinante che non genera più ombre. Nel silenzio queste pietre antiche si fanno piccole, mentre poco a poco si gonfia e si fa vasto lo spazio che le sovrasta.

Non c’è ragione.

Spazio.
Così si chiama.

E’ nei luoghi, e negli esseri umani che abitano questi luoghi.
E non è una ragione.

E’ che, semplicemente, è.

[(…) I waited all this time above you.]

[G. Hayes, Jamais Vu, 2005]

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