Dillo con una scarola

Dato che stasera non sarò a casa per cena, ho deciso di preparargli una pizza ‘e scarole, che troverà ancora tiepida al ritorno da una tre giorni di turni a dir poco massacrante.
Già lo vedo: tornerà, lascerà le chiavi sul tavolo, si cambierà, farà una doccia, con la testa dolorante e le gambe pesanti si infilerà sotto il piumone. Spegnerà la luce, dormirà un paio d’ore in quella profondità senza luce né suoni in cui scivola il corpo di tutte le persone che fanno un lavoro come il suo, che hanno bisogno di recuperare le energie che hanno sparso in giro per il cielo durante il giorno… ci scivolerà dentro con la solita urgenza, come se si trattasse di una corsa contro il carburante agli sgoccioli, per arrivare al letto prima che finisca del tutto. E dormirà, dicevo. Si sveglierà poi sotto il tepore tutto umano delle coperte, da cui solo il gorgoglìo dello stomaco saprà separarlo, non senza comunque un certo rammarico. Quattro passi per arrivare in cucina, e sentirà il profumo che viene dal forno che aprirà con calma, con gli occhi ancora rossi di sonno. Fuori la sera sarà umida, lui si siederà e si taglierà una bella fetta di rustico e la mangerà così, mezza avvolta in un tovagliolo, come si fa da noi,  forse sorridendo, forse sbadigliando. Poi magari esiterà per un momento prima di cedere alla voglia di un’altra fetta, non so. Al mio ritorno, comunque, ne troverò non più di metà, o anche meno.

Mentre guardo la pizza dorarsi beatamente nel forno, adesso, tra una pagina di Robbe-Grillet e l’altra, una cimice profuga dalle ultime mietiture dei campi intorno alla città passeggia sulla righiera del balcone in cerca di rifugio (non lo troverai qui, lo sai, vero?). Mi vien da sorridere persino di fronte a una cimice, se penso a tutto quello che sta cuocendo lì dentro, sotto quella sfoglia che tra un po’ sarà croccante e profumata…

… la pizza ‘e scarole a casa mia è sempre stata un fatto culinario piuttosto frequente, in effetti, ma di una certa importanza nell’economia affettiva della vita familiare, anche se da noi la si cucina in un modo che la tradizione definirebbe scandalosamente barbaro: senza acciughe, perché a mio fratello non piacciono le acciughe; senza uvetta, perché secondo me giudicare commestibile l’uvetta è commettere un crimine contro l’umanità (de gustibus…); e, soprattutto, con la pasta sfoglia, perché mia madre non è una casalinga e così si fa prima. Ho il sospetto che questo sia un rustico che si fa solo a casa mia, in effetti, e tuttavia tutti quelli che l’hanno mang… no, pardon, che l’hanno strafogata a casa mia non hanno mai proferito una parola che fosse una contro la pizza ‘e scarole della signora Maria. Nemmeno questo chiacchierone qui, che ogni volta che passa da casa e ce n’è una appena fatta in giro non fa che immolarsi ai doveri della buona educazione prendendone almeno un paio di fette, pure se nessuno gliel’ha messa davanti. Commovente.
 In generale, la pizza ‘e scarole fa parte del linguaggio di mia madre, credo, e quindi della mia famiglia. Quando qualcuno in casa parte o torna (specialmente in occasione dei rientri, naturalmente), la cucina si riempie di quel profumo. Lo stesso succede quando sta per arrivare qualcuno a cui vogliamo bene, quando stiamo per avere ospiti, e poi durante le feste (tutte), ai compleanni (per i suoi trent’anni, Gabriella ha spento le candeline su una pizza ‘e scarole, eh), ogni volta che arriva la persona per cui la sto preparando anch’io oggi, e quando… boh, quando serve, insomma.

– "Che buon odore… fai la pizza, ma’? Perché, oggi che è?".
– "No no, niente, è che pare che tuo fratello oggi abbia avuto una giornataccia al lavoro…".

Ecco. Questo è quello che sta cuocendo nel forno: un segno che dice sono qua, con te. Tipo un abbraccio, per intenderci. O una congiunzione.
Lo sa Alberto, che è vegetariano e io o mia madre gliela facciamo quasi ogni volta che viene a mangiare da noi, o Gian Paolo, che la scorsa Pasquetta se n’è finita una quasi per intero. Lo sa Yari, che ogni tanto fa un giro d’ispezione nel forno per vedere se ne è rimasto un po’, lo sanno Susi e Maria che pure non mancano mai di sacrificarsi in nome della Sacra Scarola ("s’avess’ maje offennere?"). E lo so pure io, che oggi – in un altrove piuttosto lontano da casa mia – so prepararla senza dover chiedere consiglio a nessuno, anche se non mi è mai stato esplicitamente insegnato. Mi scuserà la persona con cui stasera cenerò, per queste dita che sapranno d’aglio, di olive e di uova, per questa lingua che parlo e che non ho scelto (o forse sì?).

Guardo di nuovo il forno. Dentro la sfoglia, ora croccante, cuoce in verità una parola. Di lingua madre.

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