Nel boschetto dietro casa mia questi sono i giorni della raccolta delle noci. Sta, il contadino, a battere i rami delle sue enormi piante con la misurata violenza (che non può esser solo forza, ché quest’albero scontroso va affrontato in questo modo se si vuole estorcergli in tempo i suoi bizzarri frutti) che gli insegnarono da bambino, per tutto il giorno. Al tramonto gli si fanno infine nere le unghie e le dita, quando c’è da riempire i sacchi con quel che è caduto sulle larghe reti verdi tese a mezz’aria, aggrappate ai tronchi. Così dura, già da una settimana, a dispetto del Levante che fischia feroce dalle Forche Caudine, e a dispetto delle improvvise burrasche di acqua e grandine che vengono a strappar via le prime foglie ingiallite dalle cime più esposte. In volto, nei momenti di pausa, l’espressione assorta e contratta di chi è in ascolto: in questi tempi la terra alza per un’ultima volta la voce prima di scivolare nel torpore invernale ed è, questa, voce che va ascoltata per decifrare i segni della stagione che verrà… sicché, per un poco, in certi giorni pare che direzioni ed elementi si confondano: acqua profonda sopra la testa, e lento, mite tuono sotto i piedi.
Che poi, a fine giornata, viene proprio voglia di cantare.
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