(…) l’estate sul mondo
ombre stampava e pace.
(U. Saba, Chiaretta in Villeggiatura, da Preludio e Canzonette, 1922-1923)
… che scorrono sotto le ruote mentre in apnea attraverso il chilometro delle discariche di San Marco Evangelista. Non ho pensato a portare con me qualcosa per coprirmi naso e bocca, quando sono uscita questa mattina, non avevo pensato che sarei passata di qua. Tra l’altro, in questo momento della giornata – tra mezzogiorno e l’una – il fetore è particolarmente intenso, quasi insopportabile persino per chi vive ogni giorno a pochissima distanza da qui, tuttavia l’idea di tornare indietro non mi piace e così trattengo il respiro, e proseguo. Sono salva – e cianotica – soltanto dopo la curva sulla quale si protende, minaccioso, il contrafforte delle mura occidentali dell’antica Calatia, di cui qui resta a marcire un piccolo tratto, letteralmente tirato fuori dai campi che lo circondano da un gruppo di ragazzi animati da una passione fuori dal comune, la cui opera però oggi giace abbandonata, protetta da una recinzione che potrebbe essere scavalcata anche da un bambino di cinque anni e che, infatti, non ha mai fermato gli atti di vandalismo di questi ultimi anni. Qui nel centosettanquattro avanticristo c’era gente che stava lavorando per rinforzare questi mastodonti di tufo; qui allora c’era qualcuno che tagliava pietre sotto il sole, che scavava fossati, che senza nemmeno saperlo preparava questa strada al passaggio di qualcosa di molto grande.
Gente, erano. Osci, si chiamavano, e Calatia la città legata alla loro sorte. Pastori, e donne che lavoravano l’argilla. Furono i primi ad arrivare qui. Duemila anni prima dell’Anno Zero dell’Occidente, loro erano già qui. Quando si dice costanza…
Vivevano sulle colline tifatine laggiù, laggiù, ma un giorno, visto che là c’era sempre troppo vento quasi tutti i giorni dell’anno, vennero a star qui, nel pezzo di terra che si trova tra questo muro e Villa Galazia, un paio di chilometri più avanti. Non erano in tanti, ci stavano certamente ben comodi tutti. Del resto era gente semplice, senza troppe pretese, che non sentiva il bisogno di viaggiare… quando scesero dalle colline impararono a coltivare, e fu solo quando arrivarono i Greci a Cuma che iniziarono ad interessarsi al mondo esterno: i vicini appena arrivati dall’estero avevano portato ceramiche e certi nuovi oggetti ornamentali che piacevano molto alle signore, e così cominciarono gli scambi e i commerci che portarono gli artigiani locali a diventare per imitazione sempre più abili, e più apprezzati. Capirono che in una situazione del genere non c’era più motivo di restare divisi in tribù, e così da un certo punto in poi demandarono tutte le decisioni per il bene comune ad un anziano che sembrava anche saper dialogare con i piani alti dell’esistenza, mentre loro si divertivano con quei vicini che ne sapevano sempre una nuova, tanto che per raggiungerli e da loro farsi più facilmente raggiungere arrivarono persino a selciare la strada che li univa alle loro terre.
Le donne allora scambiavano i loro vasi con belle spille d’oro oro e vestiti alla moda, mentre certi altri nuovi arrivati che si erano stabiliti non molto lontano – Etruschi, erano – sembravano conoscere un modo di coltivare la vite veramente ingegnoso, che gli uomini di qui non avevano mai visto utlizzare prima; li invitarono qui a farsi insegnare come farla crescere verso l’alto, lontano dal terreno, e a loro volta ricambiarono la gentilezza con i frutti di una terra che qui era generosa come non lo era in nessun altro luogo del circondario. Insomma, gli Etruschi dovettero dimostrarsi proprio dei buoni amici se la gente di qui decise qualche secolo dopo di entrare a far parte della confederazione di dodici città di cui Capua era a capo. Intanto le condizioni di vita migliorarono ancora e – che belli! – iniziarono a circolare anche da queste parti i vasi di bucchero, ma pure quel tempo finì, quando dalle vicine montagne a nord est arrivò un popolo di guerrieri in cerca terra fertile da coltivare e, vista la ricchezza di questa campania, tanto per non sbagliare, ben pensarono di liberarsi di tutti i capi etruschi tra qui e Capua e di prenderne definitivamente possesso. Anche perché quella che passava di qui era la principale via di collegamento con il Sannio, la regione da cui questi fieri combattenti provenivano, e controllarla significava anche potersi difendere dall’avanzata di certi altri signori che venivano da quella grande (ma proprio grande!) città a nord dove sembrava che fosse nato un certo interesse per il destino di questa regione e che nel frattempo non aveva tardato ad allungare le mani fino a Capua portandovi i suoi eserciti con una gran bella strada di recente costruzione. Insomma, insomma, questo collo di bottiglia tra le colline della campania felix e del Sannio pare fosse cosa assai preziosa, e i Sanniti un fastidio per Roma non trascurabile… così anche qui arrivò la guerra, anzi, le guerre, che furono terribili (che brutto filo da torcere, questi Sanniti, che dopo le Forche Caudine si erano pure montati la testa!), e dopo le guerre questo tratto di strada selciata divenne anch’esso Appia, e la Calatia ormai sannita – che non aveva voluto piegarsi all’invasione fino allo stremo delle sue forze – fu punita duramente diventando una cittadina romana senza nemmeno il diritto di voto. L’Appia proseguì il suo cammino nei secoli fino a Taranto e a Brindisi, mentre qui calarono i veli dell’oblìo: un breve passaggio di Giulio Cesare, poi nell’era cristiana gli attacchi dei Saraceni, e infine la definitiva distruzione dell’ottocentottanta (Anno Domini). Calatia fu abbandonata, e ad essa fu preferita dagli ultimi superstiti la vicina città ai piedi delle colline, che allora si chiamava Mataluni.
Sicché l’Appia se n’è andata avanti correndo verso la Puglia, mentre io sono ancora piantata qui nel centosettanquattro avanticristo, davanti ad un enorme muro che cade a pezzi, pericolosamente consumato alla base dai paraurti dei moderni mezzi di locomozione, e che forse uno di questi giorni deciderà una buona volta di venir giù. Anche Villa Galazia, più avanti, è rossa e cadente, le pareti pazientemente scolorite e scrostate dalla pioggia e dal vento, una grande masseria che si affaccia sull’Appia con accanto una piccola cappella come quelle che spesso erano disseminate sulle grandi vie di comunicazione nei secoli appena scorsi ad uso dei viaggiatori. Senza mai lasciare la strada, nemmeno un chilometro dopo inizia il centro abitato di Maddaloni: dove l’Appia è attraversata dalla ferrovia trovo il passaggio a livello chiuso, così ho il tempo di far salire lo sguardo fino alla Torre Artus, che già da qui lascia intravedere le ferite che da tempo hanno messo in pericolo la sua solidità. Passa il treno diretto a Napoli, ed io proseguo. Al semaforo dopo il passaggio a livello mi fermo, ormai vedo chiaramente che qui posso lasciare la strada. All’incrocio giro a sinistra, e smonto dalla bici nel piccolo piazzale antistante l’ospedale civile di Maddaloni. Di fronte all’ingresso dell’ospedale, nuda si erge la grande porta di Iano Pacifero ormai priva del suo tempio. In strada passa un ragazzino in bici, un paio di ambulanze e qualche auto… è ora di pranzo, e il traffico va scemando come di consueto per la pausa di metà giornata.
Vado, allora…
… ma dove vado?
E come sono arrivata fino a qui?
E’ strano, davanti a questa porta quasi non me lo ricordo più.
Con addosso un inspiegabile desiderio di nascondermi, mi avvicino a questa curiosa rovina dalla sommità coronata di piccoli ciuffi d’erba. In vita mia l’avrò vista e ci avrò girato intorno centinaia di volte, eppure non mi era mai sembrata tanto misteriosa e bizzarra. Sta qui, in piedi, praticamente da sempre e non si capisce bene come sia possibile, cosa ne tenga insieme i resti.
Di un tempio dedicato al dio delle aperture e degli inizi rimane in piedi soltanto la porta – guarda un po’ – tra l’altro chiusa come i romani usavano tenerla in tempo di pace.
Resiste. Si ostina a restare in piedi, la porta di Iano portatore e custode di pace. Solo ora mi rendo conto che verso l’interno del tempio era rivolta alla Strada; verso l’esterno, vegliava sulle colline.
Sì. Allora sì. Sì che è davvero ora di tornare a casa.
E perché mai?
Mah, non lo so. Ma questa è la porta. Tutta questa terra, è una porta. Da qui fino a Capua.
E se questa è la porta, be’, allora è di certo da qui, che si può cominciare a tornare…
–continua–
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