(…)
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde –
fu così,
rispondi?
(E. Montale, Accelerato, da Le Occasioni, 1928-1939)
…eppur si cresce. E, dopo aver saputo come sia andata a finire, succede talvolta di camminare fino ad imbattersi nei luoghi dove una storia si sia conclusa. Pedalando, ci finisco anzi proprio sotto. Perché non resisto: la ciminiera del float glass si staglia ancora oggi fiera e silenziosa tra le rovine dei capannoni abbandonati e arrugginiti del vecchio stabilimento, e il muro che allora segnava i confini del Regno del Vetro non esiste più, abbattuto per far posto al formicaio che verrà. Quel che resta di questa specie di antico tempio al cui interno oggi non ruggisce più la voce del Fuoco, però, conserva ancora qualcosa del suo bianco, potente mistero della mia infanzia e rimane così, immobile, immerso nel sole e nell’aria asciutta di questa giornata, gigantesca testimonianza di mattoni conficcata nel bel mezzo di una spianata di case sulla quale veglierà finché glielo concederà il vincolo di archeologia industriale che la protegge. La si vede da molti punti della città, e naturalmente dalle colline che la circondano… e adesso che sono ai suoi piedi, addirittura posso vedere i luoghi dai quali mi capita di indicarla dall’alto con il dito ad amici e conoscenti dicendo "vedi, io abito lì". Ma, nonostante in essa abiti effettivamente una grande parte dei miei ricordi di bambina, oggi la vedo così da vicino per la prima volta. Non mi ci avevano mai portata da piccola né io, pur passando oggi qui accanto assai spesso, non mi ci ero mai accostata più di tanto, chissà perché.
Nel punto in cui sorgeva il piccolo edificio in cui lavorava mio padre (ed io passavo i miei pomeriggi estivi con nelle orecchie la voce del fuoco dell’altoforno) adesso passa una strada nuova, con belle aiuole sparticorsia alberate nel mezzo e larghi marciapiedi alla cui sinistra gli ultimi appezzamenti di terreno coltivato non ancora strappati via ai proprietari che si rifiutano di vendere si aprono come antiestetiche buche a spezzare la continuità dei nuovi condomini sorti uno dietro l’altro nel giro di un anno e mezzo e ancora disabitati. Qui, sotto la torre, il terreno è invece ancora brullo, calpestato e compatto ma intatto, coperto della sua solita polvere rossa e giallastra, un largo spiazzo in cui rovinano al sole tettoie, grosse lastre di vetro ed enormi traverse di ferro, insomma i resti del capannone della Composizione. Per un attimo mi sfiora la voglia di salirne la scala laterale fino in cima, e mentre studio il modo di raggiungerne la base mi sembra di veder tremolare una specie di bagliore bianco nella coda dell’occhio sinistro. Non faccio allora nemmeno in tempo a voltarmi, che lo stormo di gabbiani che stava razzolando lì prima del mio arrivo si alza improvvisamente in volo, spaventato, lanciando acute grida verso il sole. Ma il chiasso non dura che qualche secondo, e una volta al sicuro nel vento è un incanto vederli iniziare a volteggiare così, come per gioco, intorno a quello che deve essere diventato il loro rifugio. Ecco allora i primi abitanti del quartiere nuovo, ecco chi custodisce la Casa della Grande Fiamma Bianca ora che essa e i suoi Guardani non ci sono più. Eccoli qui, allora, è qui che abitano, non nella discarica che sta cento metri più in là, come invece credevo. Quella, sospetto, sarà semmai il loro MacDonald’s. Andiamo bene.
Era forse per questo che d’istinto mi ero sempre contentata di guardarlo da lontano, questo punto di riferimento visivo, e affettivo… come un faro. Il Regno del Vetro si è fatto Landa dell’Eterno Fetore, e Deserto di Cemento. Nell’estate mediterranea che avanza, le innocenti ali dei nuovi Guardiani sostenute dal Maestrale si allargano con eguale benevolenza su strane rovine di tufo abbandonate ai margini delle discariche, sulla ruggine, sulla strada deserta sulla quale riprendo a pedalare dimenticando la scala della torre, sulle pietre vecchie di ventitré secoli dove termina la vecchia San Nicola e inizia la pianura di Maddaloni, ancora più antica, ancora più ricca di memoria e – qui va da sé – ancora più desolata. Sciatta, in una secca calura quasi insopportabile, si consuma la memoria di questa strada, che ad ogni pedalata riporta adesso indietro nel tempo, sempre più indietro, e ogni cento metri sono stagioni, anni, secoli…
-continua-
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