Angolo di Appia Antica (quinta parte)

"C’è rummasa ‘a scumma d”a culàta mo’
na chiorma ‘e muscille che s’aggarba
pezzulle ‘e pane sereticcio quacche
"silòca" ‘nfacc’ê pporte arruzzuta
e ‘o viento nu viento ahi na mal’aria
‘a quanno se ne so’
fujute tutte quante secutanno ‘o ciuccio ‘nnante, ‘e notte
cu”a rrobba ‘a robba lloro (‘o ppoco pucurillo ca serve e tene)
e ‘a pòvere s’aiza ‘int’a stu votafaccia
pe’ ll’aria che se tegne d”o janco d”a petrèra"*.

(Achille Serrao, da Mal’aria, 1990)

 Dopo le case e gli esseri umani del vico Marotta, di tufo diventa il mondo intero. E’ qui. La porta. Questo è forse il punto intorno al quale cominciò a gravitare una qualche attività umana, molto tempo fa. Qui, da qualche parte intorno al punto in cui mi trovo, è iniziata tanti secoli fa la vita di quello che doveva essere solo un minuscolo villaggio di contadini, che se non si fosse trovato nei pressi di questa strada forse alla fin fine si sarebbe disperso, e infine scomparso – mi dico con infantile stupore mentre vedo un gruppetto criaturi che gioca con la pièssedue nel bel mezzo del cortile interno di una masseria, dove qualche genitore premuroso ha sistemato loro su un tavolo un televisore da ventinove pollici per farli, credo, stare belli comodi insieme ai pennuti da cortile che razzolano tranquilli intorno ai loro piedi. La gente chiama questo tratto, che dalla piazza d’a Parrocchia porta a ‘o campusanto, ‘a via d’e Nunziatelle a causa di una chiesa dell’Annunziata che sorgeva qui vicino e che, a giudicare da certe cose che ho sentito raccontare dalla panettiera del vico dei Funai (che è molto in avanti con gli anni ma ricorda benissimo quello che le raccontavano sua nonna e la sua bisnonna), verso la fine del Settecento doveva essere già mezza distrutta. Mi fermo, e mi appoggio per un attimo al lungo muro di tufo che qui costeggia la strada, sorrido, penso che non ci vorrebbe poi molto a scavalcarlo, è alto meno di un paio di metri ma a nessun ragazzino di queste parti verrebbe mai in mente di fare una pazzia del genere: alle sue spalle c’è un salto di quasi dieci metri, a strapiombo su una vallata di campagna in miniatura. Mi trovo infatti ai margini di una delle cave di tufo di San Nicola, la più antica insieme a quella d’a Santa Cumaia. Tra qui e Caserta ce ne sono, che io sappia, ancora almeno quattro, tutte incuneate in mezzo alle case e ai palazzi, come enormi buche; da qualche parte lungo il loro perimetro c’è sempre un vecchio cancello o un grande portone dal quale inizia, o iniziava, una strada sterrata in discesa che porta al fondo della cava. Qualcuno, una volta, mi disse che quel che in quel che manca da queste fosse vive quasi tutta la città, e che fu grazie alla roba gialla che da esse veniva estratta che il paesiello di contadini ‘e ‘na vòta si trasformò in un attivissimo centro di  ‘nfelatrici ‘e tabacco e spaccatori e tagliatori di pietre. Tagliatori, sì, senza la dignità del prefisso che designa una più raffinata arte: qui le pietre dolci si tagliavano, venivano selezionate a seconda della misura con la sola arte del piccone, della sega e del fierro felato. A meno di cinquanta metri in linea d’aria da qui c’è casa mia, a cinquanta metri da qui si salta agli anni Settanta, periodo in cui fu tirata in piedi la prima, piccola area residenziale della zona, con quei suoi modesti condomini a quattro piani dalle pareti giallo spento striato qua e là di marrone – a giudicare dal loro attuale aspetto mai ritinteggiate, nemmeno una sola volta da quando fecero la loro comparsa su questa terra accanto alle antiche masserie. Ma è veramente bizzarro, a ben guardare, il modo in cui i più vecchi condomini di Via dei Mille somigliano alle case che stanno al di qua dell’Appia, giallognoli e squadrati come sono, nemmeno siano stati progettati nel sincero tentativo di ridurre l’impatto estetico delle nuove costruzioni. Chissà…

 Il muro è lungo, e caldo di un sole impietoso, quasi allo zenit. Cerco un po’ d’ombra sotto le edere che straripano dall’interno della cava, accanto al portone che non viene aperto forse da un secolo e che lentamente rovina, marcisce, si disfa a dispetto del bianco marciapiede nuovo di zecca che da qualche mese costeggia il muro a nord del giacimento per merito del mai abbastanza lodato progetto Urban2, mentre esattamente di fronte a me, dall’altro lato della strada, decine di rondini volteggiano sullo spazio vuoto lasciato dal crollo della masseria del Vico Tiscione, abbandonata da decenni e collassata su se stessa alla fine dello scorso anno. E mi sembra, in effetti, di avere anch’io un cuore di tufo, un cuore di quelli in cui il tempo non scorre insieme al sangue ma che al contrario si deposita, come i sedimenti di cui è fatto il giallo della mia terra. Questa porta chiusa e il suo legno che si guasta nel pieno centro della città, devo ammetterlo, fanno un po’ male. Spero che non ci sia un buco come questo anche nella pietra porosa che ora sento pesare al centro della cassa toracica, penso quando riprendo a pedalare per proseguire ‘ncopp’ ‘e Taglie (sulle Taglie), la zona immediatamente successiva a ‘e Nunziatelle e ‘o Campusanto, dove si trovavano i cantieri dei tagliamonti, cioè coloro che facevano a pezzi i monti (le cave, in gergo popolare) "ad uso delle reali delizie". Spero, spero… spero guardando la strada scorrere sotto la ruota anteriore della bici, quando un lampo bianco mi ferisce la coda dell’occhio. Freno, alzo lo sguardo.
Nella monotona continuità delle case del centro storico non l’avevo mai notato. Più che altro, non mi ero accorta dell’arcata priva di portone. E della sgarrupatura sulla parete in alto, sulla destra. Oddio. Da quanto tempo è stato abbandonato, questo cortile? Perché le pareti interne ed esterne sono dipinte di bianco fino a metà della loro altezza? Ci sono i resti di un forno, di una latrina, gli infissi di legno mangiati dalla pioggia e dal sole incrostati della tipica vernice verde che si usava per tutte le imposte del mondo fino a una quarantina d’anni fa, e ha l’aria di non avere l’intenzione di reggersi in piedi ancora per molto. Probabilmente presto le rondini avranno un altro mucchio di macerie dove accomodarsi in pace per le estati che verranno.
Eppure, mi chiedo cosa sia accaduto qui e perché, a differenza delle altre case abbandonate di questa zona, questa sia stata lasciata così, con tutte le porte e le finestre aperte. Sembra che qui, semplicemente, chiunque o qualunque cosa vi abitasse se ne sia… andato. Via. Così. Allé. Gone. Via. Ciao.
Ma magari, in realtà, non è successo proprio niente. Chi c’era se n’è andato, e il rigattiere del Tempo è passato in seguito a ritirare le imposte. A ben pensarci, non c’è ragione per cui questa casa debba aver vissuto una storia diversa dalle altre. E forse non è nemmeno questa casa, il punto.
Il punto, semmai, sta nei verbi che un tempo la abitavano: stare; lavorare; vivere. L’abitare, stesso, pure. Quelli, sì, forse col tempo si sono fatti superflui.
Una fantasia un po’ crudele mi fa tentare di immaginare i visi di quelli che una volta abitavano qui, di quelli che dicevano "stong’ ‘e casa aropp’ ‘o Campusant’, ‘ncopp’ ‘e Taglie". Ma non ci riesco. Credo che l’immaginazione mi si sia irrigidita all’altezza del vicolo Marotta: vedo… sì, che li vedo, i loro volti. Ma sono – ancora! – di tufo. E parlano… sì, parlano di qualcosa… che però non capisco.
Saranno le avvisaglie di un’insolazione?
Mah. Meno male che il centro storico finisce qui.

 Quando riparto, mi lascio alle spalle gli ultimi cortili di questo tratto d’Appia, con l’ultimo mastino da guardia da un lato e l’ultimo tacchino – più pericoloso del mastino, quando c’ha la luna di traverso – intento ad ispezionare la propria aia dall’altro. Si diradano le case, appaiono i campi di mais e di tabacco. E le fabbriche. Le fabbriche. Le fabbriche.

continua

* C’è rimasta la schiuma del bucato ora/ una marmaglia di gatti che assapora / pezzi di pane muffo qualche / "affittasi" sulle porte arrugginito / e il vento un vento ahi una mal’aria / da quando se ne sono/ fuggiti tutti seguendo l’asino avanti, di notte / con la roba di casa (il poco poco che serve e si mantiene) / e la polvere si solleva in questo voltafaccia / nell’aria che si colora del bianco della pietraia.

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