Angolo di Appia Antica (quarta parte)

"Always in my thoughts you are.
Always in my dreams you are.
I got your voice on tape, I got your spirit in a photograph…
… always out of reach you are".

(S. Wilson, The Start Of Something Beutiful, 2005)

Lasciata casa di V. posso anche risalire in sella: sono arrivata a ‘u Trivece, il trivio, la confluenza delle tre strade più antiche di San Nicola – ovvero ‘a via ra ‘Roce (la via della Croce), ‘a Via d’a Pagliara e ‘a via ‘a Maronna. Ormai non sono più in senso vietato, e davanti al municipio posso continuare pedalando verso il cuore giallo del centro, in direzione della sua parte più polverosa e della zona in cui abito. Passo ‘u Trivece, il Municipio, saluto il vigile che piantona la piazza ad esso antistante probabilmente da una ventina d’anni a questa parte, passo il monumento ai Caduti – un orribile parallelepipedo di marmo bianco con uno stellone blu di plexiglass piantato sulla sua sommità, sia stramaledetto ora e sempre l’essere umano che ne concepì a suo tempo la forma – e l’esercito di vecchi che ne piantona i dintorni probabilmente fin dagli albori del mondo, e al bivio che mi ritrovo davanti alle ruote della bici proseguo per la strada che scivola via a destra verso la scuola elementare e la chiesa (‘a Parrocchia). Mi infilo in un paio di vicoli sulla sinistra, qui ci sono piccole corti interne dimenticate cui la luce abbagliante del sole di luglio dona larghe macchie d’ombra dove viaggiano la polvere, il polline e il pungente odore dei mazzi di origano lasciati a seccare sui balconi, colori e profumi che si mescolano sotto gli archi di ingresso oltre i quali le finestre si affacciano sui cortili come in un girotondo. Da alcune di queste finestre sporgono dei visi rugosi, dai capelli bianchi e dalla voce cavernosa che un tempo fu forse di donna, ma che oggi vibra scompostamente su note basse fino a confondersi con quella degli uomini. Si parlano ad alta voce da una finestra all’altra, queste voci che si sono perse tra le pieghe di una vecchiaia passata a infilare il tabacco o a tirare un carretto carico di scaròla in giro per quello che fino a vent’anni fa era solo un paese, si parlano biascicando parole antiche e mi guardano, mi fissano con sospetto anche dopo che le ho salutate, finché resto sotto le finestre che sono i loro occhi aperti sul (loro) mondo. In fondo, anche se questa è una strada comunale, sono praticamente entrata in casa d’altri. Per questo non ho cuore di tirar fuori la macchina fotografica, non ho cuore nemmeno di fare il tentativo di spiegare, e di chiedere se posso… no. La polvere e il tufo qui fanno tutto vecchio, e opaco. Cose e persone. Temo che se la sfilassi dal marsupio mi ritroverei in mano un mucchietto di transistor sgretolati dentro una scatoletta arrugginita. Cinquanta metri più in là c’è la città, la case nuove, le auto, internèt e i cellulari. Ma la macchina fotografica digitale qui, dietro questi muri, non è stata ancora inventata.

Saluto la corte del vico Marotta, e proseguo.

Com’è vecchia, casa mia.
Quanto giallo e quanta luce, ci sono a casa mia.
E quanto tufo, c’è a casa mia.
Sopra e sotto.
Fuori… e anche dentro.

Dentro.

continua

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