Angolo di Appia Antica (terza parte)

"And I’ll come home, be a better man,
if you promise not to follow.
And now, before it has begun,
wherever you are from, you can go but you can’t come…". (Gazpacho, Nemo, 2003)

A parte quando si è così scemi da farsi beccare a cantare sotto un semaforo, su questa strada è tutto talmente vecchio, talmente giallo, talmente tufaceo che a percorrerla ci sente scolorire fin quasi a sparire, se solo si ha il tempo di andare piano. Ci sono dei punti in cui sembra di camminare controvento, o in salita, insomma, come se la strada stessa cerchi di farti rallentare. Ce ne sono ancora da qualche parte, credo, di strade così, e trovarle è una vera fortuna.

Una volta attraversato il Vialone di corsa, salgo sul marciapiede imboccando un altro tratto di Appia che qui però si percorre solo in un senso di marcia. Sì, va be’, siccome voglio andare sempre dritto, come i viaggiatori che passavano di qui duemila e passa anni fa, mi tocca imboccare ‘a via ‘e Pagliare – questo il nome che la strada prende in questo punto – praticamente contromano ma, onde non incorrere in qualche incidente spiacevole sia per me che per un eventuale malcapitato quanto innocente avventore, scarto l’iniziale proposito di percorrerla in sella ma sullo spazio pedonale. Smonto allora dalla bici, e mentre ancora cerco di riavermi dall’imbarazzante scenetta dell’incrocio appena superato mi metto lentamente in cammino. Qui inizia la San Nicola vecchia, subito al di qua del Vialone si apre la zona delle masserie e dei palazzi di tufo, costruiti l’uno a partire dai confini della corte dell’altro come si usava un tempo, sicché i lati della strada sono quasi un lungo, interrotto muro giallo spezzato solo di tanto in tanto da stretti vicoli laterali che si intrecciano in un groviglio che serve i portoni di ogni cortile, di ogni casa, anche della più piccola cascina. Alla mia sinistra c’è un alto muro coronato di filo spinato su cui campeggia in bella mostra un cartello inverosimilmente arrugginito che forse una trentina d’anni fa aveva la funzione di segnalare il divieto d’accesso in una zona militare e, poco più avanti, lo stesso muro fa angolo con il vicolo detto "delle Casermette". E’ in questo tratto di Appia che pare ci fosse la ‘Pagliara’, un appezzamento acquistato all’inizio dell’Ottocento dalla Reale Amministrazione in misura di  "moggia 11, passi 15 e passitelli 2 di terreno" (a quanto ammonterà mai un "passitello"?) per permettere il passaggio del Vialone e dei Galoppatoi, allora in costruzione, che dovevano arrivare fino alla Reggia… e oggi? Mah, oggi c’è l’enorme incrocio, case nuove in schiacciante minoranza, il muro con il filo spinato e il suddetto vicolo, che tra l’altro è da una vita che attira la mia attenzione: passando di qui in auto, ogni volta mi riprometto di andare a dare un’occhiata. Poi puntualmente me ne dimentico, e non ci penso più. Ma oggi di sicuro è la volta buona, è ovvio.
All’altezza del mio girarrosto preferito, quindi, attraverso la strada ed entro in questo vicolo, stretto stretto e lungo lungo, anch’esso tutto giallo e tutto tufo, in cui spira una fresca corrente d’aria che porta un intenso profumo di fichi e di umidità. Il palazzo che alla mia destra costeggia la stradina è circondato da grandi protezioni in lamiera per la caduta di calcinacci che chiudono quasi del tutto lo spazio superiore  tra le due pareti del vicolo, così d’improvviso si fa buio e la luce arriva quasi esclusivamente dal portone a qualche decina di metri più avanti. Proseguo, e ad un certo punto il muro sulla sinistra si abbassa, la luce aumenta, finché non riesco a scorgere un cartello giallo affisso sulla volta dell’arco di ingresso:

ZONA MILITARE
DIVIETO
DI ACCESSO

Ah sì? La faccia mi si scompone dal ridere: l’arco e il fianco del palazzo sono percorsi da chilometri di rampicanti che arrivano fino al tetto… ce l’avranno messo le edere, qui, quel cartello? Eppure non sembra molto vecchio. Ma insomma, ormai sono qui… mah, io vado a vedere lo stesso. Al massimo, rimedio una sgridata e un invito a tornare sui miei passi, penso. Attraverso allora l’ingresso con addosso questa strana spavalderia che non mi riconosco, ed ecco che mi si aprono davanti agli occhi un altro tratto di strada, un largo spiazzo invaso dai rovi e infine una stretta curva che si infila a destra sotto un altro arco, evidentemente dotato di un cancello che però è completamente spalancato. Da una delle sbarre verdi e arrugginite pendono una catena e un lucchetto, che al contrario sono nuovi di zecca. Che ci sia qualcuno?
Risalgo sulla bici, e dò un altro sguardo intorno. L’arco è anch’esso quasi del tutto ricoperto di edera, e si apre alla fine di quello che sembra un muro di cinta che corre lungo tutta la stradina. Ma è quando arrivo a guardarmi alle spalle che resto letteralmente a bocca aperta: questa è una caserma… o meglio, era una caserma, ma è un fabbricato enorme, che dall’Appia non lascia intravedere le sue dimensioni perché il lato che dà sulla strada è da decenni totalmente rivestito di impalcature. Chissà quanto tempo fa dovevano averne avviato il restauro, e poi… e poi è finito così, abbandonato, chissà come e chissà da quanto… come un po’ tutto da queste parti, in fondo. Abito qui da sempre, e di questo posto non avevo mai nemmeno intuito l’esistenza. Ma come, come…
… sulla scia di questi punti di sospensione ormai non resisto più alla curiosità: passo l’arco e vado a vedere.
Al di là della porta lo stupore si moltiplica, trabocca, non so più dove far andare gli occhi. Parlo anche ad alta voce, credo.
Sto girando tra le casermette cui è intitolato il vicolo da cui sono venuta, erano forse alloggi questi piccoli edifici alti non più di tre metri con il tetto leggermente spiovente, rettangolari, grigi, con le finestre e le porte di legno e lungo i muri fili dell’elettricità rivestiti di ceramica, di quelli che si usavavo cinquant’anni fa? Ce ne sono tanti, forse una quindicina, ben distanziati e disposti in più file, alcuni ormai privi di tetto. Un dedalo di stradine li sfiora, invaso da fichi ed eucalipti, cespugli di belle di notte, avena sterile e quei bei fiori bianchi che le nonne qui chiamano ‘e ‘mbrellini. Il solo suono che si sente è un dolcissimo ronzare di vespe e api, ce ne sono moltissime, qui di certo avranno trovato da qualche parte un angolo in cui lavorare in pace. Sopra di me rondini, passeri, una gazza ladra. Non un’anima viva in questo posto enorme (chissà quante cose si potrebbero fare qui dentro, con tutto quello che si sente in giro sulla mancanza di "spazi" da queste parti!), che forse era la base militare che faceva capo alla Polveriera che si trovava poco distante da qui, penso a questo punto. Ma, dio, non c’è un’anima viva.
O, almeno, così sembra… finché da una delle casermette non sbuca fuori un cane, un meticcio grigio di media taglia, che abbaia furioso e quasi mi fa prendere un infarto. Dato che non è legato mi fermo per non inquietarlo ancora di più, fino a quando non si calma e dietro di lui non compare sulla… soglia… no, anzi… sul cancello della casermetta un… signore. Guardando meglio, mi accorgo che la casermetta davanti alla quale mi trovo è diversa da tutte le altre, ha in verità tutto l’aspetto di una casa… cioè… come di una villetta, bianca, recintata, le tendine alle finestre. Accanto al cancelletto d’ingresso, all’ombra di un noce, c’è anche posteggiata un’auto. Il vecchio in canottiera bianca che ne esce chiama a sé il cagnone, che subito inizia a scondinzolare e se ne va a distendersi all’ombra del cofano dell’auto. Il signore si asciuga le mani con un panno da cucina colorato, ha la pelle del colore del cuoio e mi fa segno che non c’è pericolo, che il cane è buono e non morde, infine mi domanda se è tutto a posto, o se non stia per caso cercando qualcuno.

– "No no", rispondo, " non sto cercando nessuno… scusi, sa, sto solo facendo un giro. Anzi, buongiorno. Cioè, io abito qui da quando sono nata e questo posto non l’avevo mai visto… non immaginavo che qui dietro ci fosse una caserma… ".
– "E infatti, uagliunce’, sient’ a mme che nun ‘o ssape quasi nisciuno, a fore ‘e chill’ che stann’ ‘ccà tuorno. Da quando non se va cchiù a piére, ‘a gente nun sape cchiù manco chello ca tène ‘n capa, figurate si po’ vere’ chello che tène attuorno. Io stong’ ccà ‘a trent’anne, e tu si’ forze ‘a quarta perzona ca se vene a ffà nu giro ccà dreto int’a tutt’ stu tiempo…". *

Uggesù. Eccone un altro. Ma tutti io li incontro, i filosofi in pensione di questo angolo di mondo?

– "Ah. Eh… ma scusi, posso? Non le crea mica problemi se faccio due passi? Veramente non avevo proprio idea…".
– "Eh, ‘o saccio, ‘o saccio. Ma tu ‘o ssaje che ‘stu posto sta ccà da cinquant’anni? Io ci faticavo pure. Comunque nun te preoccupa’, guarda tutto chell’ che te pare, che probblema ce sta’? Po’ a settembre vieneme a truva’ n’ata vota, mia moglie te fa ‘u ccafè. Mo’ scusa, eh, ma aggia asci’. Statt’ buon’!", e senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare il saluto si gira e sparisce dietro le sue tendine bianche, mentre resto imbambolata e incredula a fissare il cagnone, che ricambia con un’espressione del tipo non-chiederlo-a-me-io-torno-a-dormire.

Ma tu guarda questo tizio come si è sistemato… s’è scelto la casermetta con l’esposizione migliore, con lo spazio davanti e l’albero di noce accanto, se l’è intonacata e verniciata di bianco… e chissà dentro, poi! Ma come… e quando… e all’improvviso nella testa mi salta fuori tutto il coro dell’Antoniano in pausa merenda, una domanda per ogni voce, tutte intrecciate insieme in un chiasso tremendo. E’ evidente che il cane sa bene il fatto suo, ma adesso per le domande è troppo tardi. Resto piantata lì per non so quanto tempo con la mandibola disancorata, indecisa se scattare qualche foto o meno, prima di decidere di saltare di nuovo in sella e proseguire il giro. Nel naso, persiste un forte odore di fichi che non vuole saperne di andar via. Dopo un altro veloce giro intorno alle casermette, mi accorgo che sapere della presenza dell’anziano signore mi ha intimidita. Restare lì mi sembra improvvisamente ineducato, improvvisamente scortese. Io e il mio stupore, allora, altrettanto improvvisamente ci troviamo d’accordo sul fatto che è meglio tornare sui nostri passi, e proseguire il giro sull’Appia.
Fa caldo, oggi. Dannatamente caldo. Forse ho avuto un’allucinazione.
Passo a salutare un’amica che abita poco più avanti, vicino alla villa dei Centore, ramo locale dell’antica famiglia siciliana dei Centorbi, a giudicare dalla divisa riportata sullo stemma dipinto sotto la volta dell’ingresso della villa stessa. Chiedo a V. un bel bicchiere d’acqua, le racconto dell’incontro che ho appena fatto e lei, che vive soltanto a qualche centinaio di metri dalle Casermette, pure sgrana gli occhi per la sorpresa.
"E no, scusa, a questo punto a settembre ci andiamo insieme, a prendere quel caffè". Che bellezza. Meno male che ci sono gli amici.
Finisco il mio bicchiere d’acqua, saluto e riparto.

"Fugat, non fugit". Sembra un indovinello.

La risposta stamattina potrebbe essere: il Tempo.

Con la maiuscola davanti.

continua

* "E infatti, ragazzina, dai retta a me, ché non lo sa quasi nessuno, tranne quelli che abitano qui vicino. Da quando non si va più a piedi, la gente non sa più nemmeno quello che ha nella testa, figurati se riesce a vedere quello che la circonda. Io abito qui da trent’anni, e tu sei forse la quarta persona che viene a fare un giro qui dietro in tutto questo tempo…".

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