Angolo di Appia Antica (seconda parte)

"Dark is full of rays

and this ocean is a wave

and this desert is a keyhole

of passed dancing days.
(…)
Can you pull down the colossus?

Can you justify her scars?

Can you bring life to a desert?

can you justify her scars?".

(Gazpacho, Desert, 2003)

Il punto in cui ‘prendo’ l’Appia si trova in una delle zone più brutte del circondario. E’ la via d’a polveriera, in cui fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale si trovava un deposito di armi belliche, al cui posto c’è oggi la sede della Motorizzazione Civile. Stamattina il vento è ancora fresco e asciutto, e qui c’è la solita bolgia infernale delle giornate in cui si fanno gli esami di guida, bolgia per fortuna tutta concentrata nei pressi dei cancelli del grande edificio, dove gli istruttori di guida fanno capannello con i propri allievi elargendo gli ultimi consigli su come comportarsi durante l’esame. In questo punto l’Appia è uno stradone largo, enorme. Viene da Recàle e, passando sotto il ponte dell’A1, sfila via dritta verso il centro di San Nicola la Strada, che tra l’altro deve il suo nome ad una scomparsa chiesa dedicata a San Nicola di Bari ad stradam, "sulla strada", cioè proprio sull’Appia. Qui non ci sono ancora abitazioni, la vicinanza dell’Industria Calce Casertana ne ha sempre impedito la costruzione, la via è incassata tra due alte scarpate laterali bruciate dal sole e da un qualche recente piccolo incendio… a guardarla da qui, questa lunga striscia d’asfalto oggi sembra un pezzo deserto di entroterra siciliano: alla mia sinistra ci sono le vetrerie Fiore, che un tempo fabbricavano i finestrini dei vagoni di tutti i treni del Sud, alla mia destra c’è lo scasso dove da qualche parte riposano i resti della vecchia 127 di famiglia, andata in pensione qualche anno fa. Ricordo ancora con una stretta al cuore il momento in cui l’energumeno che ora è lì seduto a riposare sotto quel casotto di lamiera si avvicinò indifferente, cacciavite alla mano, per svitare la targa dall’amata scatoletta… per qualche minuto me ne sto qui, allora, appoggiata al cartello che giustifica i colori – grigio, paglia e ruggine – che mi invadono lo sguardo e lo stato di questo manto stradale pieno di buche e dislivelli da Camel Trophy, con due signori in giacca e cravatta (probabilmente due istruttori di guida in vena di una passeggiatina pre-esami) che mi guardano dall’altro lato della strada scattare foto qua e là evidentemente incuriositi, mentre ho addosso una gran voglia di scomporre i connotati del grassone dello scasso allo stesso modo in cui lui li scompose a suo tempo alla sola automobile a cui abbia mai portato una qualche forma di affezione. Nell’aria c’è odore di sterpaglia, di ferro, degli scarichi del gruppo elettrogeno che alimenta il chiosco abusivo appostato un po’ più avanti a vendere bibite sul piazzale antistante l’ingresso della Motorizzazione. Un cumulo di immondizia alto un metro davanti alle transenne che impediscono il transito all’inizio di una rampa in costruzione di un’altra strada provinciale iniziata e lasciata da circa un decennio così, a mezz’aria, è l’ultimo angolo di campo visivo che mi lascio alle spalle.
Una folata di vento si alza e mi fa pedalare via – come spesso è accaduto in altre occasioni e in altri luoghi – sull’impercettibile pendenza di questa discesa verso la città vecchia. Mi sfilano a destra e a sinistra le grandi sagome gli stabilimenti chiusi della sopra menzionata ICC, la Motorizzazione e la sua folla di patentandi, la stradina laterale dove anch’io otto anni or sono guadagnai il permesso di circolare impunemente a bordo di una qualsiasi quattro-ruote, un mastodontico concessionario di auto e la sua colorata mercanzia esposta a sviluppare calore sotto il sole, la Tipo-lito Saccone esseppià, il distributore di carburante gestito dal pittoresco Toro Seduto, il benzinaio così chiamato dai ragazzini della zona per la particolarità di tenere il suo esercizio sempre aperto, a tutte le ore e in tutti i giorni dell’anno (Natale, Pasqua e Capodanno ivi compresi), e con le chiappe perennemente posate su una grande e comoda, per quanto usurata, sedia da ufficio rivestita in pelle marrone sistemata sotto una artigianale tettoia di legno o sotto l’albero di fico che cresce accanto al distributore, a seconda delle stagioni. Quell’uomo taciturno e la sua pompa di benzina blu sono qui almeno da quando anch’io mi sono materializzata su questa terra e, io ragazzina, lui era già un punto di riferimento topografico  per la zona. Non mi meraviglierei nemmeno se sulle Pagine Gialle, alla voce "distributori di carburante", si trovasse il suo soprannome invece del marchio della compagnia di cui distribuisce la benzina… quell’omone ormai vecchio, canuto e dalla faccia truce, di cui non ho mai saputo il vero nome, con ogni probabilità non è mai stato nemmeno una persona troppo raccomandabile – "e nun ‘u sfruculiate, uagliu’!", dicevano i nonni sannicolesi ai nipoti quando dovevano mandarli da lui ad acquistare una tanica di miscela per certi loro attrezzi agricoli… eppure eccolo lì, ancora lì, sempre lì. Mah. Un mistero sotto il cielo, per noi ragazzini di allora.
Quando lo supero, sono ormai arrivata all’incrocio con ‘u Vialóne, il grande Viale Carlo III che porta alla famosa reggia borbonica. Qui l’Appia è il confine tra San Nicola e Caserta, ma oggi il grande palazzo settecentesco non mi interessa più di tanto. Mentre attendo il verde al semaforo per attraversare il Vialone e proseguire verso San Nicola, lo sguardo cade sulla vecchia masseria alla mia sinistra: parecchi anni fa questa vecchia struttura di tufo ospitava un ristorante, ancora prima sarà stata forse un’osteria, un ricovero per i viaggiatori di passaggio. Oggi è abbandonata, qualcuno ne coltiva a tabacco il terreno annesso dove di tanto in tanto, a raccolto ultimato, si vede pascolare un gregge. C’è una corte, sul lato nord della masseria, delimitata da un muro di cinta la cui sommità straripa di un verde scuro, luccicante, rigoglioso, che al primo sguardo attira e ferisce l’occhio, e poi dopo lo consola. A vista si riconoscono noci, tigli, un paio di magnolie, e un mare di edera e vitalba che ha riempito completamente il cortile, forse fin quasi all’altezza del muro. Sembra anzi che sia sul punto di colare fuori, e invadere il campo oltre il recinto.

Verde. Mamma mia, quanto è verde.

[Verde!]

Verde…

[Verde!]

Eh…

[VERDE!]

"He found himself a private desert,
and sometimes he feels that it expands,
it’s like it’s got him mirrored
the way it fits into his hand
as if it’s tailored.
If you smash yourself against his wall
then you’ll never trip…
you’ll never faaaaaaaaaaaaaaaaaaaall…".

"SIGNURI’, E’ VERDE! Vulimm’ canta’ tutta ‘a jurnata?" – grida contrariata una signora sporgendosi dal finestrino dell’auto dietro di me.

Schizzo via in volata, novella Cipollini in gonnella.
Che vergogna…

continua

Tag: , , , , ,

I Commenti sono chiusi