Angolo di Appia Antica (prima parte)

"Love me as the springtime comes

let your song drift down the stairs… to me.

Waiting here along the way to blue

remembering the days I spent with you".

[Steven Wilson & Aviv Geffen, Summer, 2004]

Brucia, il sole, nell’aria tersa e asciutta di questi ultimi giorni, impietoso, accecante, costante. Così era l’estate, qui a casa mia, nei miei ricordi di bambina – mediterranea, in una parola – ed era da anni che non ne arrivava una così. E’ una settimana ormai che il vento di ponente tiene pulito il cielo con cura, sembrerebbe quasi con impegno, al punto che il violento temporale di due giorni fa lo si sarebbe potuto considerare quasi quasi un tocco da maestro.

A non più di duecento metri in linea d’aria da casa mia passa l’Appia Antica. E’ una strada lunga, neanche molto larga (a una corsia e mezza nel tratto di cui parlo, potrei dire secondo un diffuso metodo di misurazione moderno), che viene da lontano e taglia a letteralmente a metà il comune in cui abito. A seguirla senza mai lasciarla, si può arrivare a Roma o a Brindisi, a seconda della direzione che si prende. Provare per credere. In alcuni tratti essa oggi è un largo cordone che unisce paesi e città, una agevole superstrada o comunque una statale larga e ben tenuta, importante crocevia tra la Puglia e il litorale meridionale del Lazio, che da queste parti sono entrambi meta abituale di invasioni di gitanti domenicali e in generale di esodi vacanzieri. Eppure, la Statale 7 non è sempre Appia. Per ovvie ragioni di viabilità, quando qui ne fu progettato il recupero come asse viario dopo il Fascismo, in moltissimi punti fu fatta deviare dal suo tracciato originario per poter smaltire buona parte del traffico extraurbano senza intasare inutilmente le città toccate, anche se fin dalla sua nascita, più di duemilatrecento anni fa, la regina viarum fu costruita in modo diverso da tutte le altre, lasciando da parte i grandi centri abitati di allora per puntare dritto alla sua meta. Inizialmente, doveva mettere in comunicazione Roma e l’antica Capua, e nella prima metà del suo percorso era un interminabile rettilineo di quasi cento chilometri. Una cinquantina d’anni dopo la costruzione del primo asse, poi, alla fine delle guerre sannitiche anche Benevento divenne una colonia romana, e la capitale decise di premiare il buon senso dei nuovi cittadini sanniti prolungando la madre di tutte le strade fin sotto casa loro. Mica male.
Ma il buon censore Appio Claudio non immaginava certo che di lì a duemila anni il mondo sarebbe stato un posto un po’ diverso da quello che conosceva lui, e che la sua opera più grande si sarebbe trovata immersa in città nate dove ai suoi tempi c’erano solo boschi. Persino i bufali – e il conseguente commercio di mozzarella – sarebbero arrivati dopo l’anno Mille. E invece.

Così oggi, dopo le varie risistemazioni subite dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, ci sono tanti posti in cui l’Appia perde la dignità del numero, e sprofonda in enormi centri abitati dove spesso non c’è nemmeno una targa toponomastica a ricordarne il nome. E’ questo il caso del tratto che passa dietro casa mia, che attraversava questa terra ben prima che vi si stabilisse qualsiasi forma di vita umana. Allora, gli umani qui erano solo di passaggio.

In queste giornate limpide, in cui il sole frigge il cranio, il vento è fresco e asciutto e il naso quindi coglie gli odori con una precisione di questi tempi piuttosto rara, la percorro spesso per andare a Caserta evitando il traffico creato dall’ultima droga che il nostro assessore alla viabilità ha deciso di provare per dare una botta di vita alla sua e alla nostra estate. Anche perché è una delle ultime strade rimaste in questa città a poter essere percorsa in bici senza rischiare un incidente o l’asfissia ogni cinquecento metri. Mica poco…

– continua –

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