Notturno Urbano

Non riesco a dormire. Intorno alle tre mi si aprono gli occhi e, visto che alle tre e mezzo il sonno non torna, decido di alzarmi. Quando succede, ogni tanto, faccio presto ad innervosirmi… lo spettro dell’insonnia mi fa rabbrividire, e sì che stanotte il caldo è veramente soffocante, come da copione per questo periodo. Tuttavia a questo caldo sono abituata, e ancor di più mi stizzisce il fatto di avvertire una profonda stanchezza: ero andata a dormire, infatti, un po’ prima del solito proprio perché questa sera la giornata a Napoli, lo studio e il caldo si erano fatti sentire in maniera più forte del consueto. Il che non fa che inasprire ancor di più l’umore, perché detesto il modo in cui questi periodi di inattività fisica – a volte anche relativamente brevi – pesano sul corpo, anche più di intere giornate dedicate a spaccar legna o a girare l’orto. Sembra, però, anche questa una stanchezza naturale, in qualche modo, forse segno di qualcosa che sta per esaurirsi, e che alla fine del suo corso vitale procede più lentamente e si stanca prima, come succede ad ogni cosa quando invecchia.

Mi alzo, allora, tiro su la persiana e dalla mia stanza fugge via veloce il caldo, facendo posto ad una secchiata di aria spessa, pesante, umida ma fresca, che mi richiama fuori, fuori, fuori. Sul balcone, almeno. Tiro su un’altra persiana, allora, e la notte per un attimo mi sembra un sogno fatto di porte che si aprono, ma l’immagine sul balcone mi scivola sui piedi nudi, e il contatto con la temperatura del pavimento freschissimo se la porta via, chissà dove.
Intorno, l’aria è immobile. Fresca, ma immobile. Le sagome delle case sembrano stampate sullo sfondo nero delle pendici del Tifata. D’un tratto, metto involontariamente a fuoco il secondo piano del paesaggio, e mi accorgo di una rada foresta di gru piantate qua e là un po’ ovunque, che disturba la vista in tutte le direzioni. E’ vero, già, da qualche mese a questa parte i lavori per il completamento dell’area Urban 2 procedono a ritmo serrato, e ormai i cantieri non si contano più. L’Urban 2, l’ex area industriale della mia città ora smantellata, inizia a poche centinaia di metri da casa mia, ed è la zona dove tra non molto verranno trasferiti il Policlinico universitario, molte sedi di uffici regionali e comunali, e che si prepara ad accogliere anche un’infinità di esercizi commerciali e di nuovi abitanti, per i quali è stato stato costruito nei dintorni in non più di un paio d’anni un numero di condomini a sei-sette piani non facilmente quantificabile così, a occhio. Ci sarebbe quasi da esserne felici, considerate le possibilità lavorative che questo luogo attualmente offre, ma c’è qualcosa d’altro che fa pensare che le risorse di quest’area non saranno messe a disposizione dei cittadini in maniera equa. Ma questa è un’altra storia, e per il momento sono le gru ad attirare la mia attenzione, gru a riposo che vegliano su cantieri sempre aperti, dove anche a quest’ora tutto quel che può continua a restare attivo. Cerco di immaginare ciò che questo quartiere – da sempre uno dei più tranquilli dei dintorni – diventerà di qui a un anno, e quello che vedo mi mette addosso una profonda inquietudine, come ogni volta che ci penso. Anche qui qualcosa sta per esaurirsi, anche qui un capitolo sta per concludersi, anche qui le profonde trasformazioni che hanno sfinito questa terra stanno per essere portate a compimento. E lo sento. Sento che è ora di andarsene. Siamo diventati un tumore per la nostra terra. Nell’unica regione d’Italia in cui la crescita non è a zero, ci moltiplichiamo secondo ritmi che non hanno più nulla di sano, più come cellule impazzite dentro un corpo malato che come una numerosa prole. E non abbiamo nemmeno la swarm intelligence di certe specie del regno animale, noi. No, nemmeno quella. C’è una logica di branco in questo popolo, questo è certo, ma non è intelligente. Se così non fosse, la nostra presenza non farebbe tanto male a questa terra, ed essa non sarebbe costretta ad infliggerne a noi, pur di liberarsi dal dolore che le arrechiamo.

E tendo lo sguardo, l’udito alla notte che avanza.
L’aria è così satura di umidità che i lampioni proiettano sulle strade deserte coni di luce gialla dai contorni definiti, mentre da un’ora non s’è ancora sentita passare una sola auto e gli unici suoni udibili sono la lontana voce di mio fratello – che qualche stanza più in là tiene durante il sonno una delle sue solite conferenze stampa – e il placido ronzare dell’elettricità nei muri delle case. E’ un rumore che normalmente detesto, eppure in questo momento mi sembra qualcosa di prezioso in confronto a quello che ci attende, come prezioso mi sembra il profumo dei fiori della grande magnolia sotto la quale ho giocato per tutta la mia infanzia… ora solo un’enorme sagoma indistinta che si erge nel buio con coraggio e tenacia nel mare di asfalto e cemento che la circonda, e che ancora cerca, ogni anno, di alleviare i nostri polmoni dai miasmi notturni che provengono dalle discariche dei dintorni. E stavolta, in questa notte di totale assenza di vento, è lei ad averla vinta. Dalle vecchie cave di tufo abbandonate e coperte di incolta boscaglia a cinquanta metri da qui, ancora, arriva un piccolo gruppo di lucciole, che sosta nel giardino sotto il mio balcone come a voler consolare il grande albero per la perdita delle stelle cancellate dalle luci cittadine. Dopo tutto, qui c’è ancora qualcosa che funziona.

Arriva una coppia di merli a zampettare qua e là nel giardino, e fischiando allegramente rompe il silenzio di questa notte immobile. Si fa viola il cielo a est. E’ giorno.

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