Di Tempo e Deriva – (Fin dove arriva il Mare?)

Dopo anni di università a Napoli per la prima volta oggi a via Marina, alla fermata dell’ANM di fronte al palazzo di vetro della Federico II, sento l’odore del mare. E’ salito dal porto, improvviso e stupido, salutato da un del tutto casuale alzarsi in volo di uno stormo di gabbiani. Attratta dall’inatteso frullare d’ali ho alzato lo sguardo e, come spesso si vede accadere in questa città in casi simili, metà della piccola folla di persone assiepata intorno alla fermata si è girata a guardare nella stessa direzione per qualche secondo, dopo di che ognuno è tornato al proprio telefonino, alla propria bestemmia, ai propri pensieri.
Sono qui da più di un’ora, e da qualche minuto il vento ha iniziato a girare, da nord è sceso a sud ovest (sceso, perché qui tutto quello si muove dalla terra al mare va giù), e ora si è piantato con decisione ad ovest, tanto per non sbagliare. Forse è proprio per questo, che ho beccato questo maledetto buco.
Già, buco: a Napoli, quando si è in attesa di un qualsiasi mezzo pubblico su gomma o su rotaia non sotterranea, si chiama buco quel mostruoso e assolutamente imprevedibile quanto non quantificabile lasso di tempo che inghiotte i sopra menzionati mezzi, tutti, in qualsiasi direzione vadano e per ragioni del tutto ignote ai comuni mortali ne costituiscono la principale fascia di utenza.
Il buco colpisce inesorabilmente a caso, in qualsiasi punto della città, a macchia di leopardo, e spesso il suo raggio d’azione comprende diversi chilometri, di una linea o di una intera zona. Ragion per cui non serve a nulla nemmeno cambiare fermata o linea… se ci si trova in un punto della città-budello lontano da una qualsiasi fermata della metropolitana, tanto vale mettersi l’anima in pace ed aspettare, o decidersi a camminare. Fra gli studenti universitari pendolari, infatti, dire di aver preso un buco equivale spesso a raccontare di essere drammaticamente rimasti bloccati per due o tre ore, con armi e bagagli, in balìa delle intemperie e della grande rete dell’ANM, oppure vantarsi di essere sopravvissuti ad una traversata a piedi dal retrogusto epocale (del tipo – che so? – dalla Stazione Centrale a Nisida, per intenderci), di quelle che un giorno si potranno raccontare ai propri nipoti. Che poi vorrei proprio vedere cos’abbia, di ‘mobile’, l’esseppià che porta in giro la varia umanità di questa città. Scherzando, non si potrebbe nemmeno pensare agli orari, per esempio, visto che non ne esistono…
Ad ogni modo, sono le tredici e trentotto e sono ancora qui, in questo avamposto affacciato sulle sconfinate lande del Regno dell’Attesa – che ormai mi figuro come la bassa pianura trevigiana d’inverno, fumosa e perennemente opaca di caligo – uno dei luoghi migliori per riflettere sul senso della vita e sul desiderio di un pranzo che si fa lentamente irraggiungibile, quando il vento gira e porta fin su quest’arteria stradale intasata di auto nell’ora di punta l’odore del mare. Dopo un’ora di attesa sotto il sole, arrivo a pensare che forse il buco di oggi ha addirittura qualcosa di karmico… al che, provo l’irrefrenabile istinto di strappare via di mano al distinto uomo d’affari che alla mia destra sta fumando a centimetri tre dal mio naso il suo sigaro, e di spegnerlo in faccia alla simpatica vecchina di San Giovanni a Teduccio che alla mia sinistra sta lamentandosi dal almeno tre quarti d’ora dei trasporti pubblici tenendo un comizio a centimetri dieci dai miei padiglioni auricolari, cercando approvazione negli astanti e tentando, ripetendo sempre le stesse cinque frasi, di fomentare un’estemporanea sommossa popolare contro il-sistema-che-non-funziona. E vabbuo’. Karma, oggi non te la cavi solo con una zaffata di addore ‘e mare. Ripassa un altro giorno, per favore.

 Arrivata alla fermata alle dodici e venti, soltanto ora, alle quattordici e sei minuti, sono riuscita a saltare sul primo treno utile per percorrere quei trenta chilometri scarsi che mi separano da casa. Inutile dire che ad un certo punto, stanca del signore con il sigaro e dell’anziana vajassa rivoltosa, ho salutato il buco e mi sono avviata alla stazione a piedi… se l’avessi fatto subito dopo essere uscita da Palazzo Giusso, adesso sarei a casa già da mezz’ora. Ci si casca sempre, ogni tanto. Altrimenti, in fondo, che buco sarebbe?

 Sul finestrino accanto al mio posto in treno, in trasparenza, è impressa la macchia di sebo cutaneo lasciata da un viso… forse assai curioso, perché è evidente che questo visetto ci si è stampato di fronte, sul vetro. Chiari si distinguono il triangolo dagli spigoli arrotondati lasciato dalla fronte, l’ovale del naso schiacciato e il tondino un po’ irregolare della pelle sottostante. Doveva essere un bambino, perché i più grandi queste cose non le fanno, e poi le proporzioni della macchia stessa ne lasciano quasi affiorare grosso modo i lineamenti… e mi chiedo cosa mai guardasse con tanto interesse…

Uh. Ma guarda… di questi tempi è un giardino, la massicciata della stazione. Ranuncoli… papaveri… tarassaco… e un mare… un mare di borragine… viola… un mare viola, e giallo, e rosso… che strano… che strano mare… mare…  "che magnifico mareper chi non sa nuotare!".

Ma… cosa c’entrano quelli della Luna, adesso?

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Un Commento a “Di Tempo e Deriva – (Fin dove arriva il Mare?)”

  1. keroppa ha detto:

    Ah be’, se la mette su questo piano… cosa gli si può rispondere? Immagino che non sia così semplice, per voi, cambiare lavoro.

    Intanto, devo pur ricordarmi di cominciare a far caso, in treno, alla presenza di pallide figure con cestino al seguito. Se ne poi becco una a far spuntino con una tartina al jambonet, chiedo anche un autografo. Sempre che vi si veda, in giro…

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