…mentre io adesso fuggo verso nord. Speriamo bene.
Su questo pensiero, appena uscita da Grado, mi viene incontro di nuovo una ben bizzarra segnaletica stradale, e da Grado in poi per un bel po’ le indicazioni per Trieste segnano sempre la distanza di cinquantacinque chilometri. Anche qui? Oddio, non è che per caso oggi, cucinando, ho messo nell’acqua per la pasta il Perlana, invece del sale? No, perché questa cosa comincia ad essere preoccupante.
Poi la strada comincia, lentamente, a piegarsi verso sinistra… sinistra… sinistra… finché non diventa una enorme curva, forse lunga sette o otto chilometri… così lunga che, quando finisce, mi si sono quasi cementate le braccia e girare il volante di nuovo è una manovra che riesce non senza qualche piccola difficoltà. Intanto – a parte la sagoma di Santa Maria di Barbana, che è rimasta praticamente invariata rispetto a quando l’ho vista da ovest, eccezion fatta per campanile e cupola che si sono scambiati il posto – il paesaggio è già mutato, di nuovo: da quest’altro lato, la laguna xe più tera e manco acqua, e i colori sono passati dal blu e grigio a… verde, e marrone. Ma soprattutto verde. Da Bocca di Primero in poi, la terra si nasconde sotto un immenso manto di broccato verde smeraldo a trame fitte e irregolari, percorso da spugnose macchie di terra e di fango distribuite in curve… morbide. Ecco, ecco come s’è fatto qui il paesaggio, e anche quando lascio la Bonifica della Vittoria poco prima di passare sul ponte sull’Isonzo, così mi sembra… morbido. Morbida la terra, morbida l’erba che cresce rigogliosa sull’acqua, morbida l’acqua stessa, che qui non è nemmeno più verde, né blu. E’… qualcos’altro. Laguna, forse, è la parola che nel miglior modo può significare questo: non è terra, non è acqua, non è soltanto fango né solo erba, non è mare né acquitrino. E’ una cavità, un’ansa della terra in cui tutte queste cose s’incontrano? Mah. Forse. Non lo so con certezza. Del resto, la lingua del luogo da cui provengo è priva delle classi tassonomiche giuste per permettermi di ‘cogliere’ quello che vedo al primo colpo e, in più, queste sono le prime volte che incontro una laguna in tutta la mia esistenza. Insomma: vedo, non capisco, e mi mancano le parole. E allora mi tocca cercarle.
E mentre sono lì che le cerco frugando il vuoto siderale del mio linguaggio (e dell’amena massa spongiforme, sempre lei, che mi tiene separati i padiglioni auricolari), mi sfila veloce sotto gli occhi, a sinistra, quello che mi sembra una specie di villaggio palafitticolo che sembra tirato fuori direttamente dal mio sussidiario delle elementari. Ma non posso fermarmi, se freno finisce che mi porto a casa nel bagagliaio il conducente dell’auto dietro di me, il che non mi pare esattamente una buona idea. Meglio proseguire, va’.
Dal punto in cui mi trovo adesso, si vede il temporale che ancora imperversa sulla povera Grado… non mi trattengo dal dire quattro paroline agli strafottenti cumulo-nembi di poco prima, e con un sorriso soddisfatto arrivo sull’Isonzo, che qui è bellissimo, e scorre placido e sereno adagiato tra argini di soffice erba (erba, erba, ma quanta erba, qui!) alta forse più di mezzo metro. Eh, bravo, tu… anch’io mi sentirei placida e serena, lì in mezzo.
Pochi chilometri ancora, sei-sette, e poco prima di entrare a Monfalcone, verso Panzano, trovo un bivio dove le due direzioni portano a Monfalcone-Trieste o Gorizia, e queste ultime da qui distano più o meno lo stesso numero di chilometri. Un pensiero mi sfiora, poi penso che ormai è tempo di tornare a casa, basta, se vado avanti così gli riporto la macchina senza gasolio, e che diamine, questo era perché dovevo studiare, alla faccia, ma putimm’ maje fa’ semp’ chest’, no no, mo’ prendo l’autostrada e basta. Basta.
Basta?
Basta… eh.
A Monfalcone, bastardo, si rialza il vento. Vicino al porto vedo delle buste di plastica che volteggiano allegre a dieci metri da terra, e per un istante sorrido alla familiarità che l’immagine mi ispira. Al grande incrocio dopo il ponte, prendo la direzione indicata dai cartelli verdi, poi… e poi… poi succede l’inevitabile (ma non imprevedibile).
Allo svincolo vedo un segnale: Trieste – 20.
Dovrei girare a sinistra.
E invece tiro dritto.
– continua –