I venticinque chilometri di statale 14 della Venezia Giulia fra Latisana e Cervignano (del Friuli) si rivelano essere di una noia veramente fuori dal comune – domenica scorsa, tornando da Grado a serata inoltrata, non me ne ero mica accorta – al punto che arrivo quasi a decidere di avuta’ ‘a capa a ‘o cavallo e tornare a casa. Ci sarebbe sempre il povero Galvano da far entrare al Castello del Graal, non me lo devo dimenticare. Unico diversivo, la ferrovia che corre parallela alla statale: ogni tanto, un treno merci supera placido le auto, e per un attimo si ha l’impressione di volare accanto ai vagoni, sulle ali del Maestrale tra pollini e rondini.
Quando arrivo a San Giorgio di Nogaro, però, il vento si alza. Sono rivolta verso est, mi batte con violenza sulla spalla sinistra. All’altezza di Torviscosa ci sono dei pioppi cipressini piegati a virgola con la punta verso… Grado.
No. No.
E invece sì. Va nella mia stessa direzione.
C’è un gabbiano che mi passa sulla testa, mentre sono in fila al semaforo dell’incrocio tra la statale 14 e la 352, che schizza fischiando verso il mare alla velocità di un prioettile. Ma ormai sono quasi arrivata, non posso mica tornare indietro? Magari quei nuvoloni sono solo passeggeri…. intanto faccio un giro.
Svolto a destra sulla strada Julia Augusta, e ci sono.
Be’, si fa per dire. Quando supero Terzo di Aquileia il cielo è per metà invaso da grossi cumuli grigi che non promettono niente di buono, e quando attraverso il foro più antico del Friuli il vento schiaffeggia brutalmente i campi di grano e orzo. Quando, infine, l’ultimo lembo di terraferma annega nelle braccia della laguna, sono già bell’e fregata: alla mia sinistra si apre un mare livido e minaccioso come una contusione, e grossi goccioloni iniziano a venire giù con un bel rumore di sassate sul parabrezza.
Sul lato sud dell’isola, intanto, scoppiano i primi fulmini. Ehilà, ma che bello…
Ormai piove. Mentre, sperando ingenuamente nella brevità del nubifragio, cerco un posto dove fermare la macchina nei pressi della città vecchia, il vento si fa così forte che la pioggia diventa orizzontale. Mi fermo, e le calli che sboccano sulla zona del Lido sono tutte un fuggi-fuggi di teli da mare colorati, biciclette, cagnolini che abbaiano terrorizzati. Sto per un po’ a guardare questo residuo di caos avanzato al Diluvio Universale, quando un signore dalla faccia di cartapecora bruna attraversa la strada passandomi davanti. Barba e capelli bianchi, sulle spalle porta un borsone nero di tela, e non sembra preoccuparsi più di tanto del fortunale. Cammina con calma, e di tanto in tanto volge il viso nella direzione da cui arriva la pioggia. E’ vestito della stessa tinta delle nuvole che ci sovrastano. Si infila in una calle, e mi restano gli occhi appicicati per non so quanto tempo alla stretta stradina in cui è sparito.
E intanto piove. E provo un piacere quasi sadico nel constatare a questo punto che in tutte le città di questo pianeta che ho potuto vedere con i miei occhi la pioggia provoca più o meno gli stessi effetti, gettando gli esseri umani nel panico più totale (vecchio signore grigio di passaggio e folli a piede libero a parte, naturalmente). Anche a Grado tutti corrono impazziti qua e là, mutati in topi in cerca della propria tana, e anche qui il traffico si risveglia al contatto delle prime gocce di con il suolo.
In più, c’è il maledetto semaforo. Eh. Quello che regola la viabilità dell’incrocio delle quattro strade principali dell’isola, dal quale bisogna passare per forza poco dopo l’ingresso in città (se non si è abbastanza lungimiranti da fermare la macchina al parcheggio vicino al ponte girevole). In entrata e in uscita, sempre una quaresima.
Arrivo, e resto in coda per quasi mezz’ora prima di riuscire ad arrivare vicino alla città vecchia. Quando mi rendo conto che il temporale non ha alcuna intenzione di lasciare la zona in tempi brevi (che sia venuto anche lui fin dalla Mitteleuropa per una vacanza?), penso che forse farei bene a rassegnarmi e rientrare. Il vento non accenna a diminuire, anzi, e il continua cielo a sfogare la sua rabbia. Che brutta giornata, devono aver avuto…
Sì, allora me ne vado. Mi metto in coda verso la terraferma, e quando riemergo dal gorgo del maledetto semaforo… inizia a grandinare. Vista l’esperienza avuta nei pressi di Padova dell’estate del duemilauno, divento pallida coma un cencio e mi rivolgo opportunisticamente ai piani alti dell’atmosfera presentando una formale ed educata richiesta di sospensione delle esercitazioni dei cumulo-nembi al poligono di tiro, perché le auto di passaggio non sono bersagli mobili. Ci dovrebbero essere delle aree appositamente allestite, per queste attività, che vadano lì a far pratica.
Niente. I cumuli mi ridono in faccia, facendo presente che il capitano oggi è in ferie, e quindi loro fanno quello che cavolo gli pare. ‘Aspita.
Sull’ultimo tratto della strada lagunare ho infine un’allucinazione: alla mia destra vedo una… chiesa (cosa?), e un… campanile (eh?), sorgere dall’acqua, in lontananza, nel bel mezzo della laguna. Quando sono venuta per la prima volta, domenica scorsa, non me sono accorta. Mi stropiccio le palpebre, ed è ancora là.
La grandinata finisce, e alla darsena di Belvedere torno indietro per verificare. Uhm… c’è davvero.
Non essendoci piazzole di sosta nel senso di marcia che sto percorrendo (quelle che ci sono dall’altro lato della strada devono essere state approntate in origine per permettere la manutenzione della linea elettrica che corre sospesa sull’acqua, lungo la strada) sono costretta ad arrivare fino alla fine per fermarmi a controllare sulla cartina che ho con me. Effettivamente… dovrebbe essere il Santuario della Madonna di Barbana, e sulla carta compare come una minuscola croce in mezzo all’acqua. Corrisponde. Ma chissà se dall’altra parte della laguna si vede meglio? Già che sono qui, quasi quasi vado a vedere cosa c’è dall’altro lato, la strada che va a Monfalcone ci passa più vicino…
Ripasso – questa volta imprecando, sfoderando senza ritegno (a finestrini chiusi, però) tutto il repertorio di volgarità linguistiche che una persona delle mie parti riceve in dotazione dal sostrato culturale della regione di nascita – per la terza volta sotto il maledetto semaforo, perdendo quella che ormai sembra la mezz’ora di rito. E piove ancora… accidenti, se piove.
Dalla punta di Barbacale, però, si intravede il profilo del Carso. Forse gira a sud, il temporale…
– continua –