Quando si è acqua e si entra nel nuovo recipiente che deve contenerci, di solito l’ingresso è… un getto, cos’altro? Si posa lo sguardo su buona parte della superficie che ci accoglierà, ci si riversa goffamente nel paesaggio con tutti i sensi di cui si dispone, un po’ qua e un po’ là, in tutte le direzioni. Prima ancora delle prime sagome e delle prime voci, quel che ci viene incontro sono odori e colori, che forse sono proprio la parte più liquida del paesaggio, e quella con la quale prendiamo confidenza prima ancora che con le cose alle quali appartengono. Era stato Gian Paolo ad avermi spinto a rifletterci quando, al ritorno dalla mia prima-volta-a-Parigi, per prima cosa domandò: "Allora, che odore ha Parigi?".
E io: "Eh?".
E lui: "Ma sì… oltre al fatto che un posto è fatto così o cosà… pensa… che odore ha, quel tale posto in cui siamo andati? Non ci pensi mai? Porca miseria, quest’anno sono andato in Scozia, e c’era per esempio un posto, che si chiamava North Berwick, che sapeva a tutte le ore del giorno e della notte di merda. Embe’, quindi… di cosa sa Parigi?".
E aveva ragione, Gian Paolo. Se la Porta del Nord Est erano stati un braccio, un "Buongiorno!" e una striscia di monti celesti all’orizzonte, quello con cui venni a contatto dopo furono altri colori. E odori.
Appena misi piede in quell’angolo di Friuli, infatti, il mondo iniziò a prendere un intenso colorito verde scuro. Più vicino alla città, poi, il verde diventava militare, e i monti celesti perdevano lentamente consistenza pur senza allontanarsi, fino a sparire del tutto. Poi c’era marrone, in basso. E bianco, in alto.
Ed è questa in effetti la prima cosa che ricordo del Nord Est: il cielo… bianco. E, più in generale, una gamma di gradazioni che pareva una scatola di tempere da cui fossero stati rubati i tubetti dei colori che di solito piacciono di più ai bambini, fatta eccezione per il rosa.
Già, il rosa.
Il Nord Est che ho conosciuto in questi anni ha il cielo più spesso bianco che azzurro, e i suoi tramonti sono più spesso rosa che arancioni. Ma il suo rosa ha sfumature che nel posto da cui vengo non esistono… perché lì, mi spiegò un giorno un signore anziano in vena di chiacchiere al Parco Galvani, il sole all’alba e al tramonto deve farsi strada negli strati più bassi dell’atmosfera, che "qua sono in genere più umidi che da te, credo", e allora i suoi raggi, fusi con l’acqua sospesa nell’aria, si fanno tenui, delicati, fievoli, e par che tolgano peso a tutto il mondo circostante.
Sì. L’arrivo nel Nord Est fu fatto di giorni di scirocco, e di tramonti e aurore senza peso, sottili… leggeri. Spesso, accompagnando M. al lavoro, mi capitava di trovarmi in aperta campagna proprio al sorgere del sole, e soltanto allora ritrovavo per qualche tempo il grande assente del paesaggio nordorientale, il giallo, che poco dopo l’alba si accendeva paglierino sul volto della stella che saliva puntuale e sprezzante a scandire certi ritmi di cui non sappiamo quasi più niente, e a inondare generosamente vigneti sterminati e campi di mais di tonalità che pure non avevo mai visto. Ma durava poco, quel giallo, forse non più di un’ora. Poco dopo faceva posto ad una luce diversa, quasi bianca, quasi accecante e quasi calda… a quel Cielo Bianco, insomma, sotto il quale l’afa estiva era asfissiante esattamente come quella di casa mia, e sotto il quale la discarica di Aviano aveva esattamente lo stesso odore di quelle di casa mia. Persino Pordenone tutta, infine, profumava di tigli in fiore esattamente come a casa mia il Galoppatoio.
Ci furono momenti, durante quell’estate, in cui soltanto l’assenza totale di cani randagi, la Lingua sulle labbra delle persone che incontravo e le foglie che trovavo a terra, in strada, o sugli alberi mi davano la certezza di essermi allontanata più di quaranta chilometri dal posto in cui abitavo. E il Tempo, intanto, andava…
– continua –
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