L’Eterno Scempio – Terza (e ultima) parte: da Vanvitelli ai gabbiani

 Dopo la dipartita di Vanvitelli ad oggi, infine, la storia del rapporto Napoli-Caserta è fatta di alcune tappe, di costante interscambio di risorse, e di comunanza di destini. Perché, è cosa risaputa, la Campania fu detta Felix proprio per il fatto che, nel bene o nel male, sul suo suolo attecchiva qualsiasi cosa vi si piantasse.
Poco meno di cinquant’anni dopo la morte del grande architetto (con la lettera minuscola, ma solo per evitare ambiguità con le cariche dei piani alti) Caserta fu dai Borboni nominata capoluogo della Terra di Lavoro: arrivarono allora la ferrovia, l’Opera Salesiana e con l’Unità d’Italia tutte le accademie militari possibili e immaginabili, da quella storica della Guardia Finanza a quella per i Sottufficiali dell’Aeronautica, dai campi militari di addestramento alla celeberrima Brigata Bersaglieri "Garibaldi". Intanto, la ricchezza delle miniere di tufo e dell’agricoltura la legava sotto il profilo commerciale sempre più saldamente a Napoli, che fino a Capua e ad Alife estese la sua longa manus per il controllo esclusivo delle risorse. Intanto la città cresceva, conservando quel poco che restava delle sue proprie tradizioni e insieme perdendo gli ultimi brandelli di coscienza che la rendevano culturalmente autonoma rispetto alla sua protettrice. I Casertani allora iniziarono a sentirsi parte di una realtà sociale e urbana che li riguardava ma nella quale non avevano alcuna voce in capitolo, e continuarono a rifornire Napoli di tufo finché di tufo ci fu bisogno e poi, quando iniziò l’era del cemento, non ci pensarono due volte a mettere in vendita la cintura di colline che da sempre proteggeva le loro case dai venti settentrionali. Nel 1927, poi, iniziarono anche le alterne vicende della provincia giuridica, smembrata e ricomposta più volte in tanti piccoli territori senza centro fino al ’45, anno in cui la vicenda si conclude con la nomina a capoluogo di provincia una volta e per sempre, avendo la città raggiunto un ragguardevole numero di abitanti, di servizi e di vita commerciale almeno in parte autonoma.
Ma la comunione di destino con Napoli resta, sebbene oggi i Napoletani solitamente considerino – come accade in ogni normale rapporto tra grandi e piccoli centri allorché i secondi provano a ‘rifarsi’ una vita propria tentando di recidere il cordone ombelicale dai primi – Caserta una città di cafoni, di ignoranti paesanotti che pensano di vivere in una piccola metropoli, in cui non è lecito parlare di argomenti come:
* La pizza
* Le attività culturali (come teatro, musica, cinema, che a Napoli sono SEMPRE di livello superiore)
* La viabilità (che i Napoletani, dio solo sa perché, credono essere peggiore a Caserta nonostante alcuni fattori oggettivi dimostrino il contrario)
* Le università (che a Caserta  si sono insediate in pianta stabile solo dal ’92)
* La Lingua (i Casertani spesso non sono consapevoli di parlare un dialetto leggermente diverso dal napoletano, cosa per cui sono profondamente disprezzati dai Napoletani)

Nonostante questo, però, bisogna dire che Napoli non ha mai disprezzato il tufo casertano, il cemento casertano (che però, bisogna dirlo, è assai apprezzato anche al di fuori dei confini regionali… ma questa è un’altra storia), e i grandi spazi aperti della campagna casertana che, ultimo tra tutti i ‘doni’ che sono stati fatti a questa terra ormai sfinita dalla camorra, sono stati da diversi anni a questa parte silenziosamente trasformati in mostruosi sversatoi per i rifiuti della bella-città-che-la-vedi-e-poi-muori (e non solo, via… ma anche questa è un’altra storia). Lo scorso aprile, infatti, mentre a Secondigliano, a Giugliano e a Parete tutti potevano tirare finalmente un sospiro di sollievo per la rientrata emergenza rifiuti qui, da un giorno all’altro, al consueto girare del vento di maestrale al tramonto l’aria diventava di colpo irrespirabile, facendo sprangare porte e finestre della zona in cui abito nel raggio di interi chilometri.
 
 Poi, un giorno, li abbiamo visti. E abbiamo capito.
Non si erano mai visti prima, qui, quei meravigliosi volatili bianchi che in questi ultimi anni sono diventati segnale di declino ambientale e banderuola degli spostamenti di questi preoccupanti fenomeni. Ora volteggiano placidamente in stormo tutti i giorni, a trecento metri in linea d’aria da casa mia, e anche questa mattina posso sentire il loro malinconico verso dalla mia finestra… che potrò tenere aperta solo per un altro paio di mesi, prima che la primavera torni a scaldare la terra, e a sollevare nell’aria i miasmi di quell’enorme corpo putrescente alto dieci metri e largo trenta, che prima era disseminato in innumerevoli brandelli nei pressi delle case di chi lo ha generato, e che ora invece se n’è venuto a dormire qui, riunito in un solo corpo, a un passo dall’acqua che beviamo, dalle strade per le quali passeggiamo, dai campi  sui quali cresce quello che mangiamo. Guardato a vista, per altro, da certa strana gente che una volta, il giorno in cui mi sono affacciata dal finestrino della mia auto con gli occhi sgranati dalla sorpresa e dal terrore per quello che stavo vedendo allora per la prima volta, si avvicinò dicendo: "che vulìte, signuri’? Si site ‘na giornalista, ve ne dovete andare subbito, che tanto qua nisciuno sape niente…". "Ma no… veramente… è che io abito qui vicino, e non avevo mai visto… ecco perché la sera c’è quella puzza…" balbettai in risposta, sconvolta. "Eh, e che ce vulite fa’? Mo’ iàtevenne, ià, che ccà ci sta ggente c’adda fatica’, e è meglio che nun ve facite vede’ che state a guarda’…".

Sì, è vero che Caserta deve la sua attuale autonomia provinciale solo a quel grande palazzo che è stato costruito qui nel Settecento.
Sì, è vero che ci sono centri abitati più antichi di questo che più giustamente avrebbero meritato tale fortuna.
Sì, è vero che fino a trent’anni fa questa città era un paese di campagnoli ignoranti ingranditosi fino a volersi dare arie da città.
Ma trenta chilometri scarsi di disinteresse, fino a poco tempo fa, erano sufficienti a fare la differenza. Ora, però, questa distanza va diminuendo, e un grande cambiamento nell’arco di pochi anni ci separerà presto dal paesaggio che fino ad oggi abbiamo chiamato casa. Ma il paesaggio, dice una Voce a me infinitamente cara, "non è una quinta da teatro che si può tirare via senza che dalla scena strappino via anche noi".
 I Napoletani sono ormai sfiniti dal caos del termitaio in cui vivono, e bene hanno pensato di andarsene via – a sciami! – da Napoli. E Caserta subito si appresta a preparare per loro un nuovo, strabiliante, accogliente termitaio nuovo di zecca. La Urban2 – questo il suo nome – sarà un vero capolavoro, che forse farà collassare definitivamente su se stessa la viabilità e la vivibilità di questa provincia, dopo esser stata tirata su a forza di mosse di una partita che si gioca altrove, ma non così altrove da non poterla combattere. In teoria. Dal canto nostro noi, cafoni e ignoranti, accoglieremo ancora una volta chiunque desideri farci visita, perché è giusto che le ‘nostre parti’ non siano solo nostre, ma di chiunque voglia venirci. Questo è lo spirito con cui io stessa, da emigrante dei tempi andati, sono stata accolta da altre terre… il problema naturalmente sorge quando chi ‘viene’ tende drasticamente a far terra bruciata di tutto quel che di altro-da-sé trova sul proprio cammino… e allora?

Allora accoglieremo, e infine scompariremo.
A voler leggere oggi sul paesaggio i segni di quello che accadrà domani, quello che ci aspetta è un destino di cemento e monnezza.
Già il poter pronunciare a venticinque anni una frase come "quando andavo a scuola in quella tal zona era tutta campagna, ci andavo in bici con gli amici a rubare qualche pannocchia nei campi di mais, e poi ce le arrostivamo a casa", fa sentire un po’ spaesati ed è abbastanza doloroso, di tanto in tanto.

A est , mentre avanza la sera, si accendono le luci delle cave. Mi fa un certo effetto sapere che molti dei luoghi che vedo da qui, per quanto nudi e spogli, sono quelli in cui fino ad oggi ho passato la maggior parte del mio tempo e che, prima o poi, saranno cancellati da questo paesaggio.
E’ stata una giornata fredda e limpida, quella di oggi. Bellissima. E anche questa mattina alti nel cielo, come corde di un  violino che dio in persona stesse accordando per noi, stridevano i gabbiani.

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