L’Eterno Scempio – Seconda parte: Vanvitelli e il suo Grande Amore

 Se infine l’Appia sia stata la fortuna o la rovina della Terra di Lavoro, è cosa che ancora oggi resta da stabilire.
In duecentocinquant’anni, in questa landa di contadini e cafoni dal colorito olivastro la cui lingua era uno stranissimo e quasi incomprensibile idioma, i nuovi arrivati ne hanno combinate di tutti i colori, sebbene non tutti dalle tinte fosche.
 Il passaggio di Luigi Vanvitelli, ad esempio, figlio d’arte di un certo olandese dal senso estetico urbanistico a dir poco sopraffino, lasciò in questa conca i segni visibili di uno spirito dallo spiccatissimo senso dell’armonia, e animato dalla ferrea volontà di incivilire senza violentare un territorio che, per essere abitato, aveva bisogno di grandi opere di bonifica. Più che con la celeberrima Reggia, infatti, il suo massimo capolavoro fu forse realizzato in ambito di architettura civile con la costruzione di quelle che sarebbero passate alla storia come le sue "arcate", quel maestoso acquedotto di quaranta chilometri con il quale riuscì a portare l’acqua potabile – l’unica risorsa che allora realmente mancasse a questa terra – al complesso borbonico, e a tutti coloro che ormai stavano iniziando a stabilirsi nei suoi pressi. Da quel ventennio (erano gli anni ’50-’70 del Settecento) in avanti, tuttavia, cominciò però anche il sistematico sfruttamento di tutto il ben di dio che la piana aveva da offrire, e il massiccio spostamento di contadini e senza-terra dai territori limitrofi che qui venivano a cercare vita tranquilla e lavoro: qui si veniva a coltivare la terra, che era grassa e fertile; qui si estraeva in quantità abnormi il tufo, che serviva per le case di chi era appena giunto qui e per quelle della Grande Sirena che, ahinoi, in alcune zone già iniziava a rischiare il collasso urbanistico.
In quegli anni la neonata Caserta Nova (Casa Hirta, letteralmente villaggio ripido, infatti era il nome del borgo medievale cui faceva capo il feudo dei Conti Acquaviva il cui governo fu ceduto ai Borboni all’arrivo di Re Carlo III), per altro, corse il rischio urbanistico più grande della sua dimenticata storia: i lavori per aprire il Viale Carlo III, che oggi per chi viene da Napoli è ancora il modo più suggestivo di prendere contatto con la città e la sua Reggia, erano stati iniziati con l’intento di far giungere la strada fino a Napoli, per congiungere direttamente le due residenze reali dei Borboni. Nel ’68, però, l’appena maggiorenne, capriccioso e neanche tanto sano di mente Re Nasone prendeva infine il posto del civile e ben più saggio padre – richiamato sul trono di Spagna già dal ’59 e costretto ad affidare temporaneamente il governo al Consiglio guidato da Tanucci – commissionando a Vanvitelli, come prima opera sotto la sua reggenza, di portare il mare a Caserta, affinché se ne potesse godere la vista dalle finestre della Sala del Trono come a Napoli.
Vanvitelli si oppose in ogni modo tentando di far abbandonare al Re questo puerile piccio ma alla fine, minacciato di essere accusato di tradimento alla Corona, dovette piegarsi. Per tre anni furono allora scavate, sotto il Viale, le grandi condutture che avrebbero dovuto aprire la via all’acqua dal Golfo di Napoli fino a quella che con ogni probabilità sarebbe diventata una delle pozzanghere più famose del mondo. E se Vanvitelli non fosse stato il più grande architetto allora disponibile sulla piazza, il suo passaggio a miglior vita nel millesettecentosettantatré – proprio al momento giusto! – non sarebbe servito a far interrompere e poi ad abbandonare i lavori, e quindi a salvare l’equilibrio ambientale della piccola città che vide nascere sotto i suoi occhi e le sue mani, e che pure tanto amò.

continua

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