Sono nata sul ciglio di una vecchia strada consolare romana che è qui da più di novemila stagioni a portare la gente, ovunque ci sia bisogno di andare, da Roma a Brindisi, costeggiando le torri di guardia del Litorale Circeo, aggirando le brulle groppe degli Aurunci, scendendo verso i Campi Flegrei e passando, chinando il capo, sotto i due maestosi Archi Felici, le grandi porte della Campania Felix scavate nel tufo che indicano da sempre la strada che porta a queste rigogliose terre – che furono etrusche, latine, longobarde, normanne, sveve, angioine, aragonesi – ai viandanti di ogni epoca. E, come tutti i suoi figli, questo angolo di pianura sprofondato nell’abbraccio dei Colli Tifatini deve la propria fortuna proprio a questa strada, perché fu essa a portare fin qui quegli esseri umani un pochino più importanti e potenti degli altri che la scelsero quale luogo di riposo e ristoro dalle fatiche che l’essere a capo di un regno tanto grande quanto difficilmente governabile richiedeva. Un regnante dalle fin troppo innocenti intenzioni piazzò, quindi, nel bel mezzo di questi campi, che allora non ospitavano altro che immensi boschi di macchia mediterranea, la propria residenza estiva. Accadeva poco più di duecentocinquant’anni fa. Prima questa era Campania Felix, Terra di Lavoro, luogo di fatica, di sole e vento, terra povera, fiera, feconda e indipendente. Dopo vennero le nuove strade, le abitazioni di tutti coloro che avrebbero dovuto far funzionare il complesso e delicato meccanismo della corte borbonica; fin qui arrivò la feroce Napoli, e una indolente arroganza culturale fagocitò definitivamente la dignità delle radici di un territorio che divenne quasi a tutti gli effetti una miniera inesauribile di risorse da estrarre, lavorare, e risucchiare per sostenere il sempre più accelerato ritmo cardiaco di una città che già nel Cinquecento era tra le più popolose d’Europa.
– Continua –
[con buona pace di Totentanz e del punto 11 della sua controversa personalità]